Perché fa bene la Lega a proporre di adeguare i salari all’inflazione
Pare che la Lega di Salvini abbia in mente di presentare un progetto di legge per l’adeguamento annuale e automatico dei salari in base all’inflazione (ex scala mobile). Questa proposta supererebbe finalmente il vecchio schema del 1993 che ha schiacciato i salari. È una proposta sulla quale sono pienamente d’accordo, avendola avanzata su questo blog […] L'articolo Perché fa bene la Lega a proporre di adeguare i salari all’inflazione proviene da Il Fatto Quotidiano.

Pare che la Lega di Salvini abbia in mente di presentare un progetto di legge per l’adeguamento annuale e automatico dei salari in base all’inflazione (ex scala mobile). Questa proposta supererebbe finalmente il vecchio schema del 1993 che ha schiacciato i salari. È una proposta sulla quale sono pienamente d’accordo, avendola avanzata su questo blog a suo tempo. Anzi, non capisco perché i progressisti si lascino superare a sinistra delle truppe salviniane. Vorrei però qualificare un poco la mia adesione di principio alla proposta leghista.
Seguendo le coordinate generali del ragionamento, il salario, cioè il reddito di 18 milioni di lavoratori, dipende da tre P. Le prime due, la produttività e il potere contrattuale, sono quelle tradizionali. A queste se ne è aggiunta di recente una terza, cioè la P della politica, da Renzi in poi. Il problema sta nel fatto che negli ultimi dieci anni i salari in Italia si sono ridotti dell’8% in termini di potere di acquisto, quelli del pubblico impiego del 15%. Grosso modo, la traiettoria dei salari reali in Italia è stata negli ultimi decenni la seguente: fino ai primi anni Novanta i salari sono aumentati, fino alla crisi finanziaria del 2008 sono rimasti stagnanti e infine sono diminuiti. Quali le cause? Per cominciare a capire, seguiamo la traiettoria delle tre P, partendo da quella principale, la produttività oraria.
Non c’è dubbio che il calo dei salari sia stato provocato da una stagnazione della produttività della nostra economia. La crescita del prodotto per dipendente è andata riducendosi. Poiché non si può distribuire ciò che non si produce, ecco una delle radici profonde e oggettive della stagnazione dei salari. Questo fenomeno però non è solo italiano ma caratterizza tutti i paesi sviluppati nei quali si è verificata una profonda trasformazione in quanto la produzione manifatturiera è stata sostituita da quella dei servizi, molti dei quali alla persona. Mentre la manifattura ha un’elevata produttività e di conseguenza paga alti salari, non così l’economia dei servizi che si muove tra forme di contrattazione precaria e poco pagata. Da notare poi che l’economia dei servizi, proprio perché legata alle persone, è strutturalmente caratterizzata da una bassa produttività.
Per esempio, a scuola l’unico modo per aumentare la produttività sarebbe quello di aumentare il numero di studenti per insegnante con classi da libro Cuore (54 alunni in terza elementare), ma credo che non sarebbe una buona idea. Se poi consideriamo anche le modeste dimensioni delle imprese italiane non sorprende che la nostra produttività sia crollata ai minimi. Quindi bisognerebbe con qualche politica industriale rovesciare questo primo trend molto negativo anche per il salario.
La seconda forza che plasma il salario sono i rapporti di forza contrattuali, la vecchia lotta di classe tra padroni e operari, la dialettica dei profitti e dei salari. In Italia, ad onore del vero, la dispersione salariale è minima perché esiste un sindacato forte che offre una buona tutela ai diritti dei lavoratori. La tradizionale forza dei sindacati è stata tuttavia negli ultimi decenni schiacciata dalla competizione internazionale che non ha consentito grosse rivendicazioni salariali. La buona competitività dell’industria italiana è dovuta principalmente alla moderazione salariale che però non si è accompagnata ad una eguale moderazione dei profitti. Le dinamiche della globalizzazione hanno eroso i salari ma non i profitti. Poi la riforma Renzi ha spostato ancora di più l’ago della bilancia a favore dei datori di lavoro. Quindi una crescita della produttività quasi inesistente e un indebolimento del sindacato: ecco due fattori che possono spiegare i bassi salari italiani.
Poi si è aggiunto un terzo fattore, stavolta con il segno più, che per milioni di lavoratoti arriva anche al 20% del salario netto, e cioè i bonus della politica. Ha cominciato Renzi con i suoi ottanta euro, poi diventati cento, con un costo per lo Stato di circa 9 miliardi ogni anno. Ora si è aggiunto anche il bonus Meloni con un onere di circa 13 miliardi. Quindi oggi ci sono diversi milioni di lavoratori il cui salario è sussidiato in maniera sostanziale dalla politica. Il vecchio Stato assistenziale è diventato più assistenziale che mai.
La stampella politica al salario, questa new entry nella politica economica, è però un’illusione ottica, un fattore temporaneo che andrebbe contenuto al massimo e non incentivato. In primo luogo, perché in assenza di crescita economica le risorse sono state sottratte ad altri: alle future generazioni (con il debito), ai dipendenti pubblici e ai pensionati (con i tagli) e ai cittadini (con la spending review sui servizi), innescando conflitti redistributivi. In secondo luogo, perché i bonus non producono redditi pensionistici e quindi creeranno automaticamente dei pensionati poveri. In terzo luogo, fa mancare le risorse necessarie per quella trasformazione ecologica e tecnologica che può rimettere la produttività italiana in carreggiata. La P della politica, non può sostituirsi a quelle della produttività e del potere contrattuale, gli elementi naturali della dinamica salariale. Pensarlo è un errore madornale.
Ben venga allora la proposta della Lega per Salvini che almeno mette al riparo il salario dall’inflazione sgonfiando i profitti parassitari. Una proposta stavolta realmente popolare e non populista. Mi sorprende poi che il partito della Meloni si opponga. Oppure, molto semplicemente la premier ha completato la sua metamorfosi da leader combattivo della destra sociale a quello di rappresentante ufficiale degli interessi della più ottusa destra padronale.
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