Patti digitali: cosa sono e perché servono a bambini e genitori. Le 5 regole chiave
Marco Gui, sociologo e professore all’università Milano-Bicocca, spiega come aderire alla rete nazionale. “Oggi siamo 160 gruppi in tutta Italia. Ecco i nostri obiettivi”. I risultati dell’ultima ricerca su uso della Rete e profitto scolastico

Milano, 10 maggio 2025 – Patti digitali per un’educazione di bambini e genitori, proprio mentre papa Leone XIV mette in guardia dai tanti idoli dei nostri giorni, “tecnologia, denaro, successo”, messi in quest’ordine ieri nell’omelia della sua prima Messa nella Cappella Sistina, e c’è già chi immagina una prossima Enciclica Rerum Digitalium.
Marco Gui, sociologo, professore all’università Milano- Bicocca, ci spiega che cosa sono i patti e come le è venuta l’idea?
“Parliamo di una rete che nasce in due parti diverse d’Italia, alla base ci sono dunque progetti indipendenti che poi si uniscono. Noi lombardi siamo partiti nel 2021, fuori dalla scuola dei miei figli abbiamo cominciato a discutere di questo tema. Poi ci siamo accorti che prima di noi in Friuli l’associazione Mec (Media educazione comunità) aveva realizzato una cosa simile, e così ci siamo collegati. Oggi siamo 160 gruppi, in tutto il paese”.
Minori alle prese con la Rete e con l’intelligenza artificiale. I genitori, anche i più giovani, sono disorientati, spesso non preparati. Quale può essere l’aiuto dei vostri patti?
“Nel manifesto dell’educazione digitale di comunità abbiamo fissato cinque principi, il primo e l’ultimo sono quelli fondamentali, delineano l’approccio che noi proponiamo alle famiglie. Il primo dice, sì alla tecnologia nei tempi giusti”.
Cosa vuol dire?
“Non è vero, come si dice spesso, che la soluzione alla protezione online dei minori sia solo nell’educazione. Ci vuole anche la protezione, ci vogliono anche i limiti”.
Nel concreto?
“Serve un progetto di gradualità. Dove l’accesso libero e autonomo alla navigazione avvenga per gradini. Cosa che adesso manca completamente. Quindi, educazione digitale associata ai tempi giusti nell’accesso”.
Secondo punto chiave?
“Questa gradualità non può essere costruita andando controcorrente, dalla singola famiglia che vieta le cose quando invece tutti gli altri le consentono. Deve avvenire attraverso una norma sociale nuova che in questo momento manca e può essere costruita dai genitori stessi, attraverso il patto digitale. Le famiglie si mettono insieme e suppliscono a questa carenza”.
E il ruolo delle istituzioni?
“Dovrebbero prendere posizione sulla gradualità. Quello che non hanno fatto finora. Adesso qualcosa comincia ad arrivare dal ministero dell’Istruzione, anche se in una forma molto frammentata e poco coerente. Manca però un progetto sociale. In modo che non sia la famiglia singola a dire, contro tutto il resto del mondo ti vieto di usare i device, ma invece: partecipo a una collettività che ha deciso, questa età è adatta per fare una certa cosa e non un’altra. Quindi, in concreto: genitori mettetevi insieme ad altri che hanno la vostra stessa sensibilità e decidete quale debba essere l’idea realistica di gradualità, quando è ora di consegnare uno smartphone e che cosa far vedere”.
E come ci si deve regolare con la scuola?
“Le famiglie devono esigere la libertà di portare avanti il loro progetto. Quindi gli insegnanti non devono riempire i ragazzi di compiti online, il pomeriggio. Se vogliono, i genitori possono unirsi alla rete, dove c’è un po’ più di forza collettiva. Oggi siamo 160 gruppi in Italia”.
Dite anche, l’autonomia digitale va preparata. Cosa significa?
“Non basta posticipare, bisogna istruire i ragazzi. Di materiale in giro ce n’è parecchio, ma di solito prescinde da questa esigenza della gradualità. Quindi, ad esempio, c’è chi spiega come si sta sui social a bambini di 10 anni, che anche per legge non ci devono andare. Invece a quell’età si possono realizzare tantissime belle attività, dal creare il filmino della famiglia, ad aiutare i genitori a programmare un viaggio al fare grafica”.
Chiedete regole chiare e dialogo.
“Il dialogo è fondamentale. Non vogliamo suggerire un mero divieto ma un’associazione tra quello e l’educazione ai media. Fra l’altro, questo è un sistema per arrivare a far riflettere gli adulti sulle loro abitudini”.
Ecco, l’uso continuo della smartphone, di fronte a un bambino, cosa provoca?
“Qui non ci sono risposte nette. L’obiettivo è quello di arrivare a un’organizzazione del tempo dove ci siano dei momenti in cui il genitore è impegnato e non va disturbato e altri, che sono quelli della socialità, dal pasto a quando li si va a prendere a scuola, dove si faccia questo sforzo di confinamento. Così i bambini imparano a progettare momenti in cui c’è più o meno protezione dall’interferenza degli schermi”.
Un bambino tecnologico va benissimo a scuola?
“Veramente alla Bicocca abbiamo appena pubblicato una ricerca che per la prima volta fa un’operazione statisticamente solida, mettendo in relazione l’anno di accesso al profilo social e le performance Invalsi, con una tecnica statistica molto sofisticata. E si nota chiaramentre l’impatto negativo, sia in italiano che in matematica”.