Papa Francesco sepolto fuori dal Vaticano. Ultimo strappo con la Curia: 12 anni di tensioni
Da Santa Marta a Santa Maria Maggiore, la coabitazione esclusa per sempre. La confidenza del presule: “Non amava i prefetti, li metteva qui per bloccarli”

Città del Vaticano, 25 aprile 2025 – Lontano dagli occhi, lontano dal cuore, lontano dal Vaticano. Anche e soprattutto da morto. La decisione assunta da Francesco, già nel 2022, di farsi seppellire nella basilica papale di Santa Maria Maggiore, fuori dalle mura leonine, rappresenta, se possibile, l’ultimo e definitivo strappo con la Curia romana, quel potere centrale che Bergoglio ha sopportato più che supportato. Chi lo conosceva bene sa che avrebbe voluto discernere e riformare di più la Chiesa. Non c’è riuscito, un po’ per il suo temperamento, verace più che diplomatico, un po’ (anche) per l’immobilismo e lo stile felpato del Vaticano che ha sempre sofferto. Fino alla fine.
Nell’ultimo secolo ci sono stati Pontefici deceduti non in Santa Sede – Pio XII e Paolo VI spirarono a Castelgandolfo –, ma tutti si sono fatti tumulare tra la Basilica di San Pietro e le Grotte vaticane. Bisogna tornare alla fine dell’800 e ai primi del ’900, a Pio IX, che riposa a San Lorenzo, e a Leone XIII sepolto a San Giovanni in Laterano, per trovare dei precedenti. Entrambi, però, furono scelte dettate più che altro dal cuore che animate da una qualche vis polemica. Certo, Francesco era un fervente devoto della Vergine. Prima e dopo ogni viaggio apostolico, lui che di per sé non amava troppo le trasferte, si recava proprio a Santa Maria Maggiore per soffermarsi in preghiera davanti alla Salus populi romani, la più importante icona mariana. Ma basta ciò per decifrare le sue ultime volontà?
Meglio riavvolgere il nastro. Una volta eletto, Bergoglio si presentò al mondo dalla Loggia centrale come vescovo di Roma e non come Pontefice. Lasciò intendere che sarebbe stato pastore del pueblo, in mezzo alle persone e non tra gli arazzi del Palazzo apostolico. La decisione di risiedere a Santa Marta, stanza 201, segnò la prova tangibile di una convivenza forzata e di una coabitazione rifiutata con monsignori, vescovi e cardinali che per anni, nei tanto temuti auguri natalizi, Francesco ha rimproverato apertamente, snocciolando una serie di patologie dell’anima diffuse in Curia.
Nel 2014 ne diagnosticò quindici, dalla “schizofrenia esistenziale” “all’Alzheimer spirituale”. E poi “l’esibizionismo”, “la vanagloria”, oltre al “chiacchiericcio” e “l’impietrimento mentale”. L’aveva maturato in Argentina, da arcivescovo di Buenos Aires, nel suo interfacciarsi con la Santa Sede, quel “pregiudizio anti-romano”, di cui parlava il teologo Hans Urs von Balthasar, che poi da Papa ha esportato sotto il Cupolone.
In Curia si sentiva solo, isolato, non sempre compreso. “Dei prefetti vaticani non gliene piaceva nessuno, a parte Víctor Manuel Fernández e qualcun altro – confida un presule dei Sacri Palazzi –. Qui in Curia li seppelliva”. Troppa prudenza, poca radicalità evangelica. Anche i sorrisi fra JD Vance – ricevuto a Pasqua da Francesco sofferente e muto per una photo opportunity solo dopo un certo pressing –, e il segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin – indicato ieri sul Corriere della Sera da Pietro Zampolli, inviato speciale di Donald Trump per le partnership globali, come il miglior candidato alla successione di Bergoglio –, sono stati per il Pontefice una necessità più che una volontà. I suoi candidati in Conclave operano lontano dal Vaticano, a Marsiglia e Bologna. Sono i cardinali Jean Marc Aveline e Matteo Maria Zuppi, rivela chi ne ha raccolto le confidenze.
Un retroscena svela che, durante il ricovero al Gemelli, Bergoglio avrebbe pensato per un attimo di farsi trasferire, una volta dimesso, a Santa Maria Maggiore per trascorrere lì la convalescenza. Ci andò per un saluto e una preghiera con i naselli dell’ossigeno prima di rientrare a Santa Marta. Vi torna oggi da morto. Era la sua volontà, è la sua pace.