Nell’era degli eccessi opposti, Harvard paga il suprematismo di ieri

Il 21 ottobre del 1998 Massimo D’Alema, segretario del Partito democratico, venne nominato presidente del Consiglio dei ministri, primo e tuttora unico caso di un iscritto al Partito comunista italiano – ed alle sue successive trasformazioni – chiamato a guidare un governo italiano, ossia del Paese dei Patti Lateranensi, della sede fisica dello Stato Pontificio, […] L'articolo Nell’era degli eccessi opposti, Harvard paga il suprematismo di ieri proviene da Economy Magazine.

Apr 20, 2025 - 17:58
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Nell’era degli eccessi opposti, Harvard paga il suprematismo di ieri

Il 21 ottobre del 1998 Massimo D’Alema, segretario del Partito democratico, venne nominato presidente del Consiglio dei ministri, primo e tuttora unico caso di un iscritto al Partito comunista italiano – ed alle sue successive trasformazioni – chiamato a guidare un governo italiano, ossia del Paese dei Patti Lateranensi, della sede fisica dello Stato Pontificio, delle centomila chiese. Oltretutto, un premier ateo.

Ebbene: immaginatevi se l’Università Cattolica del Sacro Cuore, 45 mila studenti tra Milano e Roma, avesse reagito alla notizia di quella nomina storica sospendendo tutte le attività didattiche per quindici giorni per dar modo ai suoi studenti di riprendersi dallo choc, dal trauma emotivo e psicologico della nomina di un post-comunista ateo a capo del governo. Ci sarebbe stata una devastante polemica, una shit-storm contro i vertici della Cattolica, e se ne sarebbe giustamente messo in discussione il loro spirito democratico, la loro tolleranza ideologica, il loro stesso senso civico.

Sarebbe stato uno scandalo.

E non a caso, l’Università Cattolica nemmeno si sognò di reagire in alcun modo alla nomina di D’Alema.

Invece quando Donald Trump, quattro anni e mezzo fa, venne eletto per la prima volta presidente degli Stati Uniti d’America, i vertici della Yale University, secondo o terzo ateneo nelle varie graduatorie di prestigio e qualità che beano gli americani, ad un’incollatura da Harvard, decretò la sospensione per due settimane di tutte le attività, didattiche e valutative, dichiaratamente per dar modo ai suoi studenti di riprendersi dal trauma! Anche perché a Yale si era laureata Hillary Clinton, che Trump sconfisse. Ed anche nel novembre scorso, sia pure senza prese di posizione ufficiali, l’atmosfera è stata quella del “lutto stretto”, con raduni di riflessione, sedute di autocoscienza, e con i “Yale College Democrats” che hanno ospitato una visione collettiva del discorso di concessione di Kamala Harris…

Ed Harvard? Meno “emozionata” di Yale, stavolta non ha fatto nessun gesto formale dopo la nomina di Trump, ma ha poi respinto le richieste inviatele dal nuovo governo dopo l’insediamento, ossia l’eliminazione dei programmi di Diversità, Equità e Inclusione, la cessazione del riconoscimento e del finanziamento di gruppi studenteschi pro-palestinesi, la revisione delle politiche di ammissione e assunzione contro eventuali discriminazioni ideologiche… Alan Garber, il rettore di Harvard, ha difeso l’autonomia universitaria: “Nessun governo dovrebbe dettare cosa le università private possono insegnare, chi possono ammettere e assumere, e quali aree di studio e ricerca possono perseguire”. Sacrosanto, peraltro con 52 miliardi di dollari di giro d’affari, Harvard dipende dai suoi finanziatori più che dai suoi studenti e tantomeno dal governo. E risponde solo a questa elite economico-finanziaria che, da sempre, ha concentrato le sue preferenze verso i democratici piuttosto che verso i repubblicani. E detta legge sia in tema di discipline preferenziali che di docenze. Elitarismo, insomma: legittimo, ma tutto commerciale e niente culturale. Basta pagare, ed entri. Pagare tanto, eh: più della retta che comunque viaggia sui 50 mila dollari l’anno.

Ok, è lecito: comprano, pagano, pretendono. Una cultura didattica “be spoke”, su misura: del resto, e in teoria, un’università privata vive di mercato e se non performa chiude. Ma che tutto ciò sia lecito non vuol dire che abbia l’esclusiva della “liceità”.

Nessuna patente di eccellenza: nessun carisma di supremazia morale.

Il successo “di mercato” di Harvard e delle altre università della “Ivi League” (la leg dell’edera, che ricopre le pareti delle palazzine del quartier generale…) non significa, insomma, che chi non è in sintonia con il pensiero di Harvard o Yale debba essere ostracizzato: cosa che invece accade regolarmente, dentro e fuori quegli atenei. O che debba essere discriminato, per esempio studenti e docenti critici verso la linea del governo israeliano su Gaza e i Palestinesi. E invece si possono citare, insome a questi, infiniti altri casi di “suprematismo ideologico” ossia di quell’atteggiamento per cui chi non la pensa come prescrive il “pensiero unico” delle università della “Ivy league”, che unisce appunto i santuari come Harvard, Yale, Stanford, Columbia, Cornell, Princeton, Pennsylvania, Dartmouth, è un paria.

Un pensiero unico che è intimamente, strutturalmente antidemocratico. Consacra appunto, senza dirlo, il suprematismo culturale di quella casta di super-ricchi che può frequentare quegli atenei, minimanete corretto dall’1% di ammessi “per merito e pro bono”… Un suprematismo per il quale chi non ha quella formazione, quella cultura, quel know how, non meriterebbe diritto di voto: non lo dicono, ma lo pensano.

Niente di nuovo sotto il sole. Riflettiamoci. L’epopea delle rivoluzioni repubblicane ottocentesche, tra Stati Uniti ed Europa, ha aperto il percorso della democrazia verso il suffragio universale, e meno male: il mondo ne aveva a sufficienza del potere “dinastico”delle monarchie.

Ma i patrioti liberali e i loro ideologi ritennero di poter gestire “incanalare” gli eccessi della democrazia diretta, per i quali 51 dementi prevalgono su 49 sapienti. In che modo?

Attraverso meccanismi di pre-determinazione dell’esito del libero voto, meccanismi che ben presto le elite impararono a presidiare essenzialmente attraverso il sistema dei partiti e dei loro finanziatori, spesso manovrati – gli uni, gli altri o entrambi, della logge massoniche e spesso dalla Chiesa, che a sua volta perseguiva un disegno di calmieramento delle fughe individualistiche e disorganizzate della lbera espressione delle opinioni della massa.

L’esito di questa metamorfosi dagli ideali liberali ottocenteschi alle prassi democratiche novecentesche, aggredite ma poi vittoriose dal nazifascismo è stato l’equilibrio discutibile ma virtuoso sancito a Yalta e presidiato dal deterrente nucleare…

Un equilibro saltato sotto due colpi mortali: il primo, strategico. Il crollo del muro ha privato il, Paese guida delle democrazie occidentali, ossia gli Stati Uniti, del nemico storico e, insieme, del deterrente morale che sconsigliava gli eccessi plutocratici, visto che i russi post-muro hanno fatto peggio degli yankee sull’arricchimento selvaggio e sulla disuguaglianza.

E soprattutto, il secondo colpo, un colpo mortale, una beffa della storia. I democratici, sostenuti dalle loro lobby, hanno sottovalutato il ruolo potenziale della Rete e, per mano di Bill Clinton e del suo digital act, nel ’96, hanno sciolto le briglie ai giovani tycoon del nascente web, aprendo il vaso di Pandora del soggettivismo definitivo di internet, che con i social tutto misconosce e tutto trita, eliminando in radice l’idea stessa delle elite. E consentendo qualsiasi eccesso. Purchè eccesso opposto!

I padroni della Rete hanno cavalcato questa loro libertà assoluta senza minimamente calcolarne gli effetti. E oggi la Rete stessa ha democratizzato davvero il voto, dando però (e quindi!) troppo peso – rispetto al vero – alle opinioni eccessivi, sempliciste, gutturali. Quindi o bianco o nero, anzi prima l’uno e poi l’altro. Uno specchio deformante, una minoranza numorosa che copre le voci sommesse ancorchè più numerose, uno straordinario acceleratore di particelle di merda.

I tycoon della rete, oggi, sono più potenti dei padroni di Wall Street sia perché ricchissimi sia soprattutto perché condizionano le opinioni di chi vota. I grandi banchieri e finanzieri sono “solo” ricchissimi.

E dunque oggi Trump si ritrova vicini i Tycoon della Rete, e non i banchieri. E’ diventato uno di essi, ha fondato il suo social Truth, scorrazza da padrone del campo sull’ex Twitter del suo (per ora) consocio Musk. Dunque calvalca gli animal spirits della Rete, dove emergono e brillano solo i trogloditi come lui. E per questo le elite che pure all’inizio lo hanno appoggiato – in fondo il Tycoon è un capitalista che deve tutto alle banche – lo hanno attaccato sulla frontiera dei dazi inducendolo a frenare a randellate borsistiche (anche se per ora resta il più forte): perché percepiscono di non poterlo più manovrare.

In sostanza: se Trump, eletto dai trogloditi come lui, si fosse poi accordato con i fighetti del deep state, era il delitto perfetto. Imbonire il ventre del Paese, e continuare tutto come prima, gattopardescamente. Ma il biondone è matto davvero, e la cosa non era prevista.

E qui che si torna concettuale al perché dello scontro fra Trump e le università. Cosa dice, il troglodita della Casa Bianca, agli intellettuali dei campus a lui da sempre ostili? Semplicemente, che devono rispettare anche loro le regole della democrazia: se hanno vinto i trogloditi come lui, cosa oggettiva e costatabile, che ora governino. Altrimenti diciamolo che stiamo abolendo la democrazia perché ci siamo accorti che, per interposta Rete, lascia emergere solo quelli che non ci piacciono, che non leggono il New York Times e che ruttano in pubblico. E ripristiniamo il mito della Repubblica dei Sapienti. Che si chiama oligarchia.

Dunque, Trump è un troglodita attaccabrighe e violento che, come tutti i fascisti – anche quelli italiani – semplicemente non concepisce la democrazia perché fingono di accettare il contraddittorio ma appena qualcuno li contraddice loro lo “fire”, lo licenziano. E dall’altra parte del campo di gioco, le teste d’uovo della Ivy League sono invece sofisticati, sensibili e pensosi, sono cauti, sanno tutto e si rendono conto di tante cose ma alla fin fine non sopportano l’idea che, a causa della democrazia, debbano anche loro mediare le proprie idee con il lattaio dell’Ohio.

E dunque declinano in concreto soltanto quella torva formula “riclassificata” di democrazia delle elite, che negli ultimi 35 anni della storia economica dell’Occidente, dopo il crollo dell’impero sovietico, ha generato disuguaglianze infernali, odio sociale e razzismi, perpetuando in modo sofisticato colonialismo e imperialismo, almeno economico-finanziario se non più formalmente militare.

Eccepiscono di solito, a questo punto del ragionamento, le anime belle e stupide che scrivono sul New York Times e succedanei, che comunque il modello rappresentato da Harvard e dai democrat è meglio della Cina di Xi o della Russia di Putin, e perciò è da preferire comunque rispetto a qualsiasi troglodita e, figuriamoci, a maggior ragione rispetto a Trump.

Grazie al c***o. Nessuno scambierebbe quei regimi con i nostri, occidentali, per decotti che siano. Nessuno di noi ci andrebbe a vivere serenamente, sotto Stranamore Putin o nell’orbita del mistero cinese. Perchè almeno, qui da noi, quasi tutti alla fine riescono a fare quel cavolo che gli va, salvo pretendere di rompere davvero le scatole al potere: allora no, vedi alla voce Assange. Ma di Assange ce n’è uno, il grosso di noi se ne sta al calduccio del suo tenore di vita, della sua “economia non osservata”, del suo 16% di sommerso, della sua criminalità tollerata, insomma di quella micro-anarchia tollerata dove svetta l’arte di arrangiarsi. Perfino la mitica Germania, ricordiamocelo, ha dovuto rileggere se stessa alla luce della truffa del diesel-gate…

Ma anche se è meglio la nostra anarchia di qualsiasi efficiente dittatura… c’è un ma, che nessuno valuta e che veramente sta spedendo alla discarica la nostra bella civiltà. Il “ma” è che questa nostra benedetta “civiltà superiore” che pretende, anzi millanta, di essere il meglio che l’umanità abbia generato in 2000 anni di storia, oggi sa solo piagnucolare sui bulli che hanno invaso la Casa Bianca anzichè mettersi a lavorare ventre a terra sui propri difetti, sulle proprie ipocrisie, sulle proprie clamorose lacune, per superarle, curarli, migliorarsi e recuperare i voti che ha perso, in quelle fasce sociali convinte – ahiloro – che “democrat” negli Stati Uniti e “socialdemocrazia” ovunque nel mondo significhi solidarietà, uguaglianza nelle opportunità, diritti civili… Macchì: forse è stato vero un tempo, ma da più tempo non è più vero.

Un’elite che fosse tale dovrebbe lavorare sui propri errori e limiti, per superarli; non crogiolarsi sui propri successi. E ricordarsi che quei trogloditi vincenti, che oggi stridulamente criticano, sono soltanto una reazione anticorpale al disinganno causato da decenni di tradimenti morali e politici.

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