Nell’epoca capitalista, anche il sesso si è ridotto a solo una voce nella lista delle cose da fare
Viviamo in un’epoca strana, in cui siamo costantemente stanchi, ma non ci è concesso fermarci. Dove ogni secondo sembra dover essere produttivo, dove ogni esperienza deve essere capitalizzata, anche quelle legate al piacere. In questo contesto, il protagonista sesso viene spesso ridotto a un’altra voce nella lista delle cose da fare. Non tanto per desiderio autentico, quanto per ansia da prestazione esistenziale. Come se anche l’intimità fosse diventata un KPI da misurare. L'articolo Nell’epoca capitalista, anche il sesso si è ridotto a solo una voce nella lista delle cose da fare proviene da THE VISION.

Il sesso è una forma di potere. Ed è, da sempre, una delle poche forme di potere che le donne possono esercitare in maniera autonoma, anche se con dei costi. Un potere ambiguo, che seduce e insieme brucia, che può dare agency ma anche ritorcersi contro di noi. È un potere che, per quanto venga rivendicato e teorizzato, resta ancora oggi strettamente sorvegliato. Se la donna è padrona della sua sessualità, se la esercita intenzionalmente, se gode apertamente – se non “si fa desiderare” ma desidera – diventa ancora, in molti contesti, una minaccia. Il termine “troia” è lì a dimostrarcelo: una parola che non ha un corrispettivo maschile realmente offensivo, e che continua a circolare nei discorsi pubblici e privati con una leggerezza disarmante.
Viviamo in un’epoca strana, in cui siamo costantemente stanchi, ma non ci è concesso fermarci. Dove ogni secondo sembra dover essere produttivo, dove ogni esperienza deve essere capitalizzata, anche quelle legate al piacere, a volte soprattutto quelle. In questo contesto, il sesso – anche quello più istintivo e irrazionale – viene spesso ridotto a un’altra voce nella lista delle cose da fare. Non tanto per desiderio autentico, quanto per ansia da prestazione esistenziale. Come se anche l’intimità fosse diventata un KPI, e andasse misurata. In un’epoca in cui ci sentiamo stritolati tra lavoro, doveri, spese, fomo e quant’altro è evidente che, capitalismo o meno, o ci si annichilisca completamente, rinunciando a sé stessi per rispondere in maniera ottimale alle spinte sempre più forti dell’ingranaggio sociale, per sentirsi dei bravi bambini e bambine, oppure che si cerchi di massimizzare il piacere, non tanto in un’ottica capitalista, ma proprio come accumulo di esperienze positive, quasi consumistico, una dipendenza da dopamina, una scarica rapida che ci faccia tirare una boccata di fiato, per poi rimetterci giù a testa bassa. Questa scarica di dopamina, la stessa dei social, del cibo, degli acquisti compulsivi, si innesca anche con le relazioni, che non diventano mai abbastanza. Così abbiamo fatto evaporare anche il potere rivoluzionario della libertà sessuale, come veniva celebrato da Milan Kundera (ma non solo) ne L’insostenibile leggerezza dell’essere: oggi fare sesso è una cosa come un’altra, sempre uguale a se stesso, sempre dettato dalle logiche di accumulo e consumo bulimico. Questa però non è libertà, è l’ennesima forma di uniformità culturale.
Certo è che in una vita imprevedibile e frammentata, a volte pensare a una relazione che sia qualcosa di più che occasionale può risultare utopico o quantomeno decisamente irragionevole, soprattutto in un’analisi oculata di costi-benefici. È così difficile costruire qualcosa, costruirci, proteggerci, dare forma a un nostro piccolo spazio sicuro, in cui poterci sentire bene, e poi difendere ciò che abbiamo costruito che al di là della retorica appare completamente ragionevole e comprensibile che non si voglia mettere a rischio e in gioco tutto questo aprendoci a un’altra presenza. Spesso però si finisce all’estremo opposto, quello della conquista usa e getta, che va consumata, anche se non ne abbiamo voglia, perché deve essere spuntata, contata, e inserita nel nostro piccolo catalogo dongiovannesco. È come quando fumi anche se fumare a ben vedere non ti dà più nessun piacere, se non quello di soddisfare l’abitudine alla dipendenza, e confermare, in un certo senso, ciò che sei.
Se il patriarcato aveva una chiara gerarchia – l’uomo attivo, cacciatore, la donna passiva, preda – il neoliberismo ha semplicemente trasformato tutti in potenziali microimprese, persino nei rapporti umani. La sessualità oggi viene vissuta, molto spesso, come una serie di esperienze da accumulare – non tanto per piacere, quanto per confermare qualcosa: il proprio valore, la propria appetibilità, la propria apparente libertà. Una sorta di self-branding erotico, dove ogni conquista sessuale è come un nuovo follower. In questo senso, l’ideale dell’emancipazione sessuale, che doveva liberare il corpo e il desiderio dalle catene della morale, sembra essere stato addomesticato. Michel Foucault ci aveva già avvertiti: il potere non reprime, ma produce. Produce soggettività, produce comportamenti, produce desideri. E così, anche il sesso “libero” sembra essere diventato una forma di controllo, ormai inglobato in una logica di consumo ben lontana da Woodstok. Ma se tutto è permesso, ma nulla veramente sentito, non c’è più trasgressione, non si manifesta più quel potere rivoluzionario, catartico e liberatorio dell’atto.
Il corpo così si trasforma in superficie neutra, veicolo di performance, non certo artistica, ma intesa come esperienza misurabile e riproducibile, a prescindere dall’altro, che viene oggettificato, spersonalizzato e reso tela delle nostre proiezioni narcisistiche, egoiche e individualiste. Come nota la filosofa americana Nancy Bauer, l’ideologia contemporanea ci dice che possiamo “fare tutto”, ma raramente ci chiede perché lo facciamo. Non è un caso che molte donne oggi si sentano obbligate a “dover essere liberate”, a mostrarsi disinibite, multitasking anche nel sesso, capaci di gestire carriere, figli, squirting e orgasmi multipli. In realtà, si tratta di un altro modo di normalizzare il controllo sul corpo femminile, che viene ancora una volta spogliato della sua complessità.
Il sesso occasionale, in questa prospettiva, non è necessariamente un problema. Non è il numero di partner, né la durata di un incontro a determinarne il valore, ma il modo e l’attitudine in cui viene vissuto. Fare sesso una sola volta con qualcuno può essere un’esperienza potente, se c’è intimità, presenza, desiderio; ma può anche diventare un’abitudine sterile, un automatismo, una risposta condizionata alla noia, alla solitudine, alla frustrazione. Il problema non è il sesso occasionale in sé, ma l’occasionalità strutturale delle relazioni contemporanee. In una società frammentata, liquida come quella descritta da Zygmunt Bauman, ogni legame sembra infatti destinato a evaporare prima ancora di essersi condensato in una qualche forma. Le relazioni si sfilacciano prima ancora di cominciare. E anche il sesso, quella che dovrebbe essere una delle esperienze più incarnate che possiamo vivere, si fa dissociato, scollegato dal corpo e dalla mente, distratto.
Per molte persone, soprattutto per molte donne, la sessualità diventa quindi un campo minato. Da una parte, la paura del giudizio; dall’altra, la pressione di dover performare la libertà, spesso in un contesto che non si percepisce affatto come sicuro. Così ci si trova in una terra di mezzo in cui tutto è possibile, ma niente è davvero concesso. Dove anche il piacere viene messo in scena, recitato, senza lasciare tracce. Ma il sesso, per sua natura, le tracce le lascia. Anche quando ci illudiamo del contrario. Come nota Eva Illouz, sociologa e autrice di Perché l’amore fa soffrire, la cultura contemporanea ha disgiunto amore e desiderio, creando uno scarto rischioso tra ciò che proviamo e ciò che ci è richiesto di mostrare. E questo scarto si riflette anche nelle relazioni occasionali, dove si cerca spesso una validazione più che un contatto reale. Sedurre qualcuno diventa un modo per sentirsi ancora vivi, per verificare il proprio valore, ben più che per entrare in connessione con l’altro.
Il sesso allora diventa una forma di auto-conferma e validazione, ma anche un campo minato. Perché nella ripetizione di un copione che ci promette piacere e libertà, rischiamo invece di allontanarci da ciò che desideriamo davvero. E questo, in fondo, è il paradosso della libertà sessuale postmoderna: possiamo avere tutto, ma non sappiamo più cosa vogliamo. “Occasionale” quindi non è per forza sinonimo di “vuoto”, ma lo diventa quando l’incontro con l’altro è solo un modo per confermare se stessi, quando l’intimità è ridotta a simulacro, quando il piacere è un gesto automatico da registrare nelle proprie storie mentali e da dimenticare subito dopo. Che spreco a pensarci bene. Mettiamo in scena tutte quelle abilità che abbiamo in dotazione come esseri umani sostanzialmente per consumare un rapporto veloce che non deve – assolutamente – lasciare tracce su di noi.
In questo senso, dovremmo chiederci appunto che cosa ci resta dopo tutto questo rituale di cui resta solo la forma. Rivendicare il diritto al piacere significa anche rivendicare il diritto alla complessità e alla singolarità di ciascuno in quanto individuo unico, vivere il corpo non come vetrina o dispositivo, ma come territorio sensibile e in costante cambiamento. Forse, più che cercare la libertà nella moltiplicazione esponenziale delle esperienze, che comunque può essere curiosa e divertente, dovremmo cominciare a chiederci in quali condizioni siamo davvero libere e liberi di scegliere. Se ci sentiamo obbligati a desiderare, se ci sentiamo sbagliati nel dire di no, o peggio ancora nel desiderare qualcosa di diverso da ciò che oggi è considerato “normale” o auspicabile, allora quella non è libertà: è un altro tipo di adattamento all’uniformità.
Il sesso dovrebbe poter essere anche questo: un gesto deliberato, consapevole, a volte urgente, a volte dolce, a volte silenzioso, a volte politico, a volte randomico o caotico. Ma, soprattutto, dovrebbe essere nostro, nel senso più pieno e non conforme del termine. Rimettere al centro il desiderio autentico, che è fatto anche di esitazioni, di rifiuti, di fragilità o vulnerabilità può essere una nuova forma di resistenza, una presa di posizione consapevole. Non per moralismo, ma per verità e aderenza a se stessi, coerenza. Perché il sesso, anche quello occasionale, può essere un luogo di verità, se siamo disposti a starci e a esserci davvero, senza copioni da rispettare, senza numeri da mostrare, senza scuse, bugie o giustificazioni. Forse la vera rivoluzione oggi non è fare sempre tutto, avere più esperienze possibili, ma scegliere con lucidità e con attenzione cosa fare e chi farci, solo così quei momenti diventeranno esperienze reali, capaci di arricchirci e – magari – cambiarci.
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