Nātyaśāstra a confronto con la Poetica di Aristotele: il piacere dello spettatore
Come promesso, torno sul trattato teatrale indiano Nātyasāstra, ovvero “Scienza del teatro” (d’ora in poi, NŚ), di cui è appena uscita la prima edizione italiana (con la traduzione di Maddalena Italia e i saggi di Marilia Albanese, Tiziana Barbiero, Giuliano Boccali, Shashi Deshpande, Ricardo Gomes, Mirella Schino). Vale la pena riparlarne perché si tratta di […] L'articolo Nātyaśāstra a confronto con la Poetica di Aristotele: il piacere dello spettatore proviene da Il Fatto Quotidiano.

Come promesso, torno sul trattato teatrale indiano Nātyasāstra, ovvero “Scienza del teatro” (d’ora in poi, NŚ), di cui è appena uscita la prima edizione italiana (con la traduzione di Maddalena Italia e i saggi di Marilia Albanese, Tiziana Barbiero, Giuliano Boccali, Shashi Deshpande, Ricardo Gomes, Mirella Schino). Vale la pena riparlarne perché si tratta di una delle tre grandi teorie classiche del teatro, accanto alla Poetica di Aristotele (IV secolo a. C.) e ai testi di Zeami in Giappone (XIV secolo). Forse la più importante, almeno per ampiezza e completezza della trattazione, che non esclude davvero nessuna delle tante componenti dell’arte teatrale.
Lasciando da parte l’affascinante raccolta di scritti di Zeami, è sul confronto del NŚ con la Poetica che mi concentrerò in questa sede. Indipendentemente dall’esistenza o meno di influssi, pur ipotizzati, della seconda sul primo, è estremamente interessante evidenziare differenze e analogie. Esse possono aiutarci a spiegare le ragioni teoriche antiche che stanno alla base di due tradizioni teatrali tanto diverse, come quella occidentale, fondamentalmente testocentrica, e quella indiana, in cui la centralità è invece riservata all’attore-danzatore, alla rappresentazione scenica e alla relazione che vi si instaura con lo spettatore.
Ma prima occorre spendere due parole sul testo sanscrito e su come esso è giunto fino a noi. L’attribuzione ad un autore di nome Bharata (in sanscrito, “attore”), probabilmente una figura mitica, copre il reale processo di composizione dell’opera, filtrata attraverso una lunghissima trasmissione orale. Da qui l’oscillazione delle datazioni fra due-tre secoli a.C. e due-tre secoli d.C. Da qui anche, e soprattutto, la sua inconfondibile natura: “un ibrido di mito e di basso sapere performativo”, secondo le parole del regista-antropologo americano Richard Schechner. Mitica è in effetti l’origine stessa del teatro secondo il NŚ, donato dagli Dei agli uomini come quinto Veda per aiutarli in un momento di pericolosa decadenza.
Nel Medioevo il NŚ fu oggetto di numerosi commenti, alcuni dei quali molto importanti. Dopodiché se ne perdono le tracce per secoli, fino alla seconda metà dell’Ottocento, quando inizia un formidabile sforzo di ricostruzione filologica a partire da una tradizione frammentata e dispersa in non meno di una cinquantina di manoscritti. E soltanto alla metà del Novecento si arriva alle prime edizioni complete in sanscrito, e poi in inglese, di un testo che resta comunque spesso controverso, contraddittorio e ripetitivo. Lascio agli appassionati dell’India e del suo teatro addentrarsi nelle pagine tecniche del trattato, dove, tra infinite classificazioni, ogni aspetto dell’arte teatrale viene definito e fissato. Perché, al di là di questo aspetto prevalente di manuale pratico, il NŚ contiene anche la più profonda e minuziosa teorizzazione di ciò che sta al cuore del teatro, di ogni teatro direi: la relazione attore-spettatore e le emozioni che ne rappresentano la principale posta in gioco.
A fronte della stringata ma indubbiamente efficace definizione aristotelica (“tragedia è dunque imitazione di un’azione seria e compiuta […] la quale per mezzo di pietà e paura porta a compimento la depurazione (katharsin) di siffatte emozioni” [trad. Diego Lanza]), sulla quale ci siamo scervellati e ancora lo facciamo da oltre duemila anni, il NŚ dedica ben due capitoli alla questione degli Stati emotivi (Bhava) e di come, grazie all’attore-danzatore e alla rappresentazione, gli spettatori li possano “vivere” a teatro. Queste emozioni (l’ira o l’amore, ad esempio) lo spettatore a teatro non le può provare come nella vita reale (il che – per inciso – lo mette al riparo dai rischi ad esse connessi) ma le può “assaporare”, ne può cioè gustare il “sapore” (Rasa), più o meno come si gustano dei cibi o delle bevande, con l’intero corpo e non con i soli vista e udito, dominanti invece dai Greci in poi nel teatro occidentale.
Altre due differenze decisive, rispetto alla nostra tradizione: 1) contrariamente a quanto sostiene Aristotele, che ritiene possibile l’effetto catartico anche alla sola lettura del dramma, qui l’assaporamento delle emozioni, con lo specifico piacere estetico che ne deriva, è possibile solo a teatro; 2) il NŚ distingue nettamente fra spettacolo realistico, considerato di scarso valore, e spettacolo d’arte, convenzionale, quindi lontano dai canoni della “verosimiglianza” aristotelica, sfociati nelle estetiche realistiche-naturalistiche dell’età moderna.
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