Maltrattamenti, condannato per aver impedito alla moglie di lavorare

Le violenze in famiglia sono integrate anche da comportamenti che condizionano la psiche della vittima, così impossibilitata a trovare lavoro

Apr 6, 2025 - 15:26
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Maltrattamenti, condannato per aver impedito alla moglie di lavorare

Le varie forme in cui si manifesta il patriarcato sono oggi al centro di un vasto e acceso dibattito. E in materia ulteriore benzina sul fuoco la getta una nuova pronuncia della Cassazione, secondo cui è penalmente responsabile il marito che, esercitando violenza sulla moglie, la priva della possibilità di lavorare, di ottenere uno stipendio e di rendersi economicamente autonoma.

La sentenza che qui interessa è la n. 12444 dello scorso 31 marzo: ne parliamo perché indica lo specifico reato in cui incappa il partner eccessivamente geloso o possessivo, suggerendo – quindi – quali sono i limiti che, se superati, integrano un abuso domestico perseguito dalla legge.

La vicenda in breve e il rilievo dell’abitualità del comportamento

Nel caso giunto fino alla Suprema Corte una donna, per molti anni, aveva subìto i condizionamenti del marito, che – in una sorta di ricatto psicologico – le imponeva di non lavorare e non formarsi professionalmente, per badare – invece – alle faccende domestiche. A ben vedere, comportamenti non dissimili da quelli che mirano all’ossessivo controllo dell’utilizzo del denaro familiare e alla privazione dell’accesso ai soldi del conto corrente.

Un progressivo abbattimento mentale che ha portato la moglie a fare causa al marito, considerato anche che – come emerso nell’iter giudiziario – questi atti di violenza psicologica, seppur non giornalieri, erano comunque parte di una estesa strategia di controllo e abuso, con autore il marito.

Le proprio la pluralità di atti lesivi, anche diluiti nel tempo, è espressione di abitualità di un comportamento penalmente rilevante, che condiziona la vittima e la porta a subire un sistema di vita inaccettabile per la propria psiche. D’altronde, come abbiamo già notato parlando di boom di startup femminili, la sopraffazione sulle donne spesso va di pari passo con la negazione dell’indipendenza economica.

Violenze psicologiche come forma di maltrattamento in famiglia

I maltrattamenti in famiglia costituiscono una violazione della sfera di dignità e benessere psico-fisico, punita dall’art. 572 del Codice Penale. Anche se il senso comune porta a pensarlo, ciò però non significa che questi maltrattamenti debbano per forza aversi con aggressioni fisiche ai danni del coniuge.

La legge, infatti, sanziona anche le ingerenze psicologiche e le violenze economiche, vale a dire quei comportamenti – ripetuti nel tempo ma non per forza giornalieri – che tendono a limitare le capacità di scelta dell’individuo, di fatto piegandole alla volontà altrui.

Una soggezione punita dal Codice, come ha sottolineato la Cassazione nella sentenza n. 12444, infliggendo una sentenza di condanna al marito – reo di imporre una subdola forma di dipendenza o controllo. E attenzione perché, per la punibilità non rileva – spiegano i giudici di piazza Cavour – la tolleranza o la soglia di sopportazione della vittima: la violenza economica è sanzionata in quanto maltrattamento in famiglia. Nel giungere a questa recente decisione la Corte ha richiamato alcuni suoi precedenti giurisprudenziali in materia, come ad es. Sez. VI Cass. 1268/2025 e Sez. II 11290/2023. E, peraltro, chi maltratta rischia anche di perdere il lavoro.

Concludendo, le scelte organizzative familiari non vanno imposte con una prevaricazione psicologica, ma vanno condivise. Se il partner decide di trovare un’occupazione, per rendersi indipendente e – anzi – per contribuire con entrare proprie al bilancio familiare, non può essere il bisogno di “possesso” dell’uomo a impedire alla moglie di firmare un contratto di lavoro. Altrimenti, se dimostrata in giudizio la condotta vessatoria del partner, in tribunale il giudice non potrà che applicare la sanzione detentiva prevista dal citato art. 572.