Maledetto Festival – Sanremo non si guarda: si affronta. Arrivati alla finale, avremo vinto tutti

Finalmente ci siamo. Anche quest’anno è arrivato il festival della canzone, rituale collettivo italiano, solenne festa nazionale col suo corredo di fiori, diatribe e grandi speranze. Le due vetrine della cartoleria della stradina del centro di Napoli davanti alle quali passo ogni giorno a piedi per andare a scuola e che, di addobbo in addobbo, […] L'articolo Maledetto Festival – Sanremo non si guarda: si affronta. Arrivati alla finale, avremo vinto tutti proviene da Il Fatto Quotidiano.

Feb 11, 2025 - 17:56
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Maledetto Festival – Sanremo non si guarda: si affronta. Arrivati alla finale, avremo vinto tutti

Finalmente ci siamo. Anche quest’anno è arrivato il festival della canzone, rituale collettivo italiano, solenne festa nazionale col suo corredo di fiori, diatribe e grandi speranze.
Le due vetrine della cartoleria della stradina del centro di Napoli davanti alle quali passo ogni giorno a piedi per andare a scuola e che, di addobbo in addobbo, scandiscono il mio tempo e le stagioni, da settimane annunciano il grande evento. Cammino lungo la via e, al di là dei vetri, vedo campeggiare pile di tazze che recitano: “Stasera non posso! C’è Sanremo!”.

Oggi però il giorno è arrivato davvero.

Come tutte le feste, Sanremo possiede una forza conservativa e rigenerativa e i suoi simboli fondanti si modificano costantemente in linea con le trasformazioni culturali, politiche e sociali del Paese. Coniuga tradizione (i big) e innovazione (le nuove proposte), mescola passato e presente (i duetti nella serata cover), innesta nuovi significati su vecchi modelli (il cambiamento delle melodie e dei testi), attribuisce valenze nuove a simboli antichi (la metamorfosi della scenografia del palco dell’Ariston).

Tra le celebrazioni, è la più vicina alla festa delle feste, cioè il Natale, e non soltanto perché molti di noi smontano l’ultima stella cometa all’indomani della proclamazione della canzone vincitrice, ma perché la kermesse sanremese presenta alcune cifre prettamente natalizie. Si annuncia, infatti, sempre prima nel tempo, innesca un senso di frenesia e di attesa, abbatte ogni velleità mondana in favore del divano, fa parlare solo di sé, congela le categorie di tempo e spazio, relega in secondo piano le notizie di politica e di cronaca, produce una convivialità domestica sublimata nella formula dei gruppi d’ascolto.

La visione (mistica) delle puntate ha lo stesso carattere coercitivo delle tombolate, dei banchetti lunghissimi, dei giri disperati del mercante in fiera: è una prova di resistenza fisica e psicologica a cui nessuno di noi desidera però sottrarsi. Sanremo non si guarda: si affronta. E per tale ragione, dopo l’ascolto integrale dell’infinita lista dei cantanti in gara e dopo la serata delle cover (nella quale anche noi – con una spazzola per microfono – ci esibiamo), arrivati alla finale, abbiamo vinto tutti. Purificati e rigenerati possiamo tornare alle nostre vite. Ce l’abbiamo fatta.

Come il Natale, il festival ha ovviamente i suoi fanatici: conosco almeno dieci persone tra le mie amiche e i miei amici i quali, se esistesse l’albero di Sanremo (come d’altronde esiste quello di Pasqua e di Halloween) non esiterebbero a montarlo subito in salotto, magari addobbando i rami con delle palline su cui sono incisi i titoli delle canzoni: Nel blu dipinto di blu, Non ho l’età, Adesso tu, Fiumi di parole, Vorrei incontrarti tra cent’anni.

Come il Natale, il festival ha anche i suoi detrattori che affermano fermamente di odiarlo e di non guardarlo per poi risultarne, per altre vie, inevitabilmente risucchiati: in quanto festa, Sanremo è ineluttabile e inevitabile a lui non si può sfuggire. È necessario, è un rito di passaggio che tiene insieme una comunità intera, inaugura l’anno nuovo e segna il tempo: nel calendario esiste sempre un prima e un dopo Sanremo, non solo per chi lo vince e per chi partecipa, ma anche per noi che lo guardiamo in televisione.

Avete mai provato a spiegare cos’è Sanremo a una persona che non vive il Italia? Impresa ardua poiché risulta impossibile rendere pienamente l’anima sanremese in tutte le sue sfumature. Innanzitutto la definizione. Gara canora? Non rende. Evento musicale? Non solo. Programma televisivo? Riduttivo. Manifestazione culturale? Asettico. Perché Sanremo è un vortice emozionale, ricco di simbologie che attivano in ognuno di noi sentimenti profondi e spesso contrastanti.

Proprio come il Natale, presenta tutti gli aspetti della festività vissuta dalle famiglie in Italia: la malinconia delle feste per le persone che non ci sono più, l’assenza dei nostri Pippo Baudo, la minaccia di lanciarsi dalla balconata, l’imprevisto e la possibilità di un improvviso rovescio della sorte: dalla classica lite da tavola sintetizzata nel dissidio Morgan-Bugo e in quel “Che succede?” che ognuno di noi ha pronunciato, almeno una volta, durante le riunioni natalizie, fino a Blanco che prende a calci i fiori e scassa tutto, iconografia perfetta di quel parente che all’improvviso sclera senza che nessuno che riesca a fermarlo.
E poi Gianni Morandi, costernato, sul palco con la scopa, intento a raccogliere i cocci dopo la buriana. E, ancora, il prefestival e il dopofestival, antefatto e postfazione dei rendez-vous tra congiunti, rigorosamente da prevedere, commentare e elaborare come avviene nelle migliori famiglie. Perché ogni edizione del festival è infelice a modo suo.

Ma come il Natale, Sanremo regala anche ricordi indelebili e sorprendenti: Carmen Consoli nel 1996, coi pantaloni di pelle e il rossetto rosso, la chitarra e una voce incredibile che arriva da un altro pianeta. Avevo 13 anni e quella apparizione fu per me una folgorazione: esistevano donne che suonavano e che non piangevano per essere state abbandonate e non giuravano amore eterno agli innamorati, ma gridavano di non potersi accontentare di un amore di plastica. Dicevano no. E, a dirigere l’orchestra un’altra donna, Margherita Graczyk. In un colpo solo, in un solo brano, un’educazione musicale, politica ed emotiva.
Sanremo allora, forse, ci somiglia e nel festival ci specchiamo per ricordarci come siamo stati, afferrare come siamo oggi, immaginare come diventeremo in quel confine tra note e testo, tra musica e poesia che costituisce storicamente la cifra della canzone italiana.

In questi giorni, ho acquistato dunque la tazza in cartoleria e la copia di rito di Tv Sorrisi e Canzoni, ho creato la mia lega per il Fantasanremo. Mi sono fatta istruire dai miei alunni circa le relazioni pericolose tra Achille Lauro, Chiara Ferragni, Fedez, Taylor Mega e Tony Effe e dai loro telefoni ho ascoltato il pezzo di Emis Killa – poiché non esiste festeggiamento che si rispetti senza un escluso e una defezione all’ultimo minuto.

Ho letto le analisi dei testi dell’Accademia delle Crusca firmate da Lorenzo Coveri, ho consultato “A Sanremo”, il libro di Roberta Lancellotti appena pubblicato da Perrone. Ho fatto saltare tutti i miei impegni della settimana, acquistato sette confezioni di caffè utili a foraggiare la moka per non addormentarmi e sottrarmi al mio karma che mi impone l’esibizione sempre degli stessi cantanti. Tutto è pronto. Possiamo cominciare. E che la festa abbia inizio.

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