L’intelligenza artificiale in tribunale: avvocato cita sentenze di ChatGpt, ma non esistono
Un suo assistente aveva usato il software per ricercare precedenti legali sull’acquisto di merce contraffatta. I documenti trovati (e usati) erano inventati. La controparte lo ha accusato di malafede, ’graziato’ dai giudici

Firenze, 30 marzo 2025 – Un processo su plagio e riproduzione di marchio industriale, si è trasformato in un caso-scuola su giustizia e intelligenza artificiale. Tutto inizia durante la discussione in aula: l’avvocato della parte reclamante presenta nella memoria difensiva delle sentenze di Cassazione in tema di acquisto di merce contraffatta. Le sentenze, però, non esistono, non sono mai state pubblicate. E il legale si difende spiegando che “i riferimenti giurisprudenziali citati nell’atto erano il frutto della ricerca effettuata da una collaboratrice di studio mediante lo strumento dell’intelligenza artificiale ChatGpt, del cui utilizzo lui non era a conoscenza”. Il cervellone artificiale, capace di fornire risposte alle domande più disparate, ha fatto quindi cilecca. Inventandosi dispositivi giuridici che mai sono stati emessi dalla Cassazione.
I giudici del tribunale di Firenze, sezione imprese, nelle motivazione della sentenza parlano di “allucinazioni giurisprudenziali” provocate dall’intelligenza artificiale. Ovvero quando “l’IA genera risultati errati che, anche a seguito di una seconda interrogazione, vengono confermati come veritieri”.
Oltre alla figuraccia in aula, l’avvocato è stato accusato durante il procedimento di “abusivo utilizzo dello strumento processuale” per avere cercato di influenzare il giudizio del tribunale con dati fasulli, provocando così dei danni alla controparte. L’altro difensore ha chiesto anche la condanna per “responsabilità aggravata” e cioè per aver “agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave”. Dal suo canto, il legale, riconosciuto l’omesso controllo, aveva chiesto lo stralcio dei riferimenti ritenendo già sufficientemente fondata la propria linea difensiva.
Il collegio dei giudici, pur sottolineando “il disvalore relativo all’omessa verifica dell’effettiva esistenza delle sentenze risultanti dall’interrogazione dell’IA”, ha ritenuto che “l’indicazione di estremi di legittimità” fosse stata fatta “ad ulteriore conferma della linea difensiva già esposta” e dunque unicamente “diretta a rafforzare un apparato difensivo già noto e non invece finalizzata a resistere in giudizio in malafede”.
È stata così rigettata la richiesta di condanna al pagamento di ulteriori somme, presentata dalla parte che si è poi rivelata vittoriosa. I giudici hanno ritenuto che le loro valutazioni non siano state influenzate da queste sentenze inesistenti perché la causa si ‘giocava’ su altri piani.