Le favole consolatorie oltre la realtà: il populismo secondo Trump
Gli effetti dei dazi

Che cosa c’è, davvero, nella testa di Trump? Dove vuole arrivare e qual è il suo obiettivo? Come può alzare le spalle di fronte ai mercati, come può insultare deliberatamente e allegramente mezzo mondo, fra cui i suoi alleati più storici e più fedeli e cioè noi, proprio noi europei, falsando spudoratamente la realtà storica che lega e regola i nostri rapporti da ottant’anni? Cosa spera di ottenere, quale scopo lo guida? A fronte delle categorie economiche sulle barricate, delle borse in picchiata, del capitalismo globalizzato che in queste ore grida al golpe commerciale mondiale, lui ostenta il sorriso di chi può permettersi di fregarsene delle critiche e delle accuse. E dunque, che strategia sta perseguendo The Donald?
Per prima cosa, questi giorni di montagne russe hanno avuto tra i molti effetti anche quello, inizialmente meno prevedibile, di distogliere l’attenzione dal grande fallimento della pace in Ucraina – al presuntuoso grido di “adesso si fa quello che dico io” – e dall’altrettanto fallimentare tregua nella Striscia.
I toni e le modalità sono stati, nei confronti dei conflitti in corso, gli stessi usati nell’economia. Non solo: mi hanno riportato alla mente lo stile, del tutto simile almeno sul piano comunicativo, del Trump che si trovò a gestire, alla fine del suo primo mandato, la tempesta del Covid.
C’è infatti un filo rosso che unisce tutte queste versioni del presidente Usa, ed è il populismo anti-scientifico, anti-sistemico, anti-competenza. Un populismo che non si limita a semplificare, ma che si nutre deliberatamente del rifiuto della realtà per vendere all’elettorato la favola consolatoria del “noi contro loro”, anche a costo di sabotare la salute pubblica o l’economia globale. Con il suo sconclusionato “D-Day” Trump ha ribaltato decenni di ortodossia economica basata sul libero commercio. Eppure, nel suo mondo capovolto, il danno economico non è un errore, ma un costo “necessario” per riaffermare la sovranità americana, come se il commercio globale fosse una cospirazione da smascherare, non un ecosistema da governare con intelligenza.
È esattamente la stessa logica alla base della propaganda no-vax, di cui Trump si fece megafono. Quando la scienza invocava prudenza e razionalità, lui rispondeva con dubbi seminati a caso, ipotesi grottesche su candeggina e idrossiclorochina, e l’ossessione per la narrazione dell’élite medica come nuova aristocrazia del sapere da abbattere. Anche qui, non importa se le vaccinazioni hanno salvato milioni di vite: nel linguaggio populista, la verità è negoziabile, la realtà un’opinione.
I dazi, la pace perché-lo-dico-io e il no-vaccinismo sono, dunque, assimilabili a una stessa matrice: il rigetto delle evidenze consolidate in nome di un’emozione primordiale e identitaria. Il paradosso, però, è che chi paga il prezzo più alto di queste narrazioni tossiche sono proprio i cittadini che lui pretende di difendere. I dazi non salvano il lavoro americano: lo rendono più costoso, meno competitivo, minacciato dall’inflazione e dalla frammentazione delle supply chain, delle catene di distribuzione. Il populismo trumpiano non è solo ideologia: è una performance politica dove la distruzione delle regole è il vero spettacolo. Non importa che i dazi siano una tassa regressiva. Quel che conta è la sensazione di rivalsa, il gusto di vedere “gli esperti” messi all’angolo, la soddisfazione di chi crede di ribaltare il tavolo mentre, in realtà, sta solo segando una delle gambe su cui poggia.
Se la politica rinuncia alla competenza per inseguire il consenso emotivo, se l’economia e la medicina diventano strumenti di guerra culturale, allora non ci troviamo più davanti a una democrazia imperfetta, ma a uno show in cui la realtà è lo scenario da distruggere. In cui non si ambisce a governare il futuro, ma a vendicarsi del presente.