L’antimicrobico resistenza? La causa è anche negli allevamenti intensivi (e negli animali domestici)
“Gli antibiotici si danno in eccesso nell’uomo, a causa di prescrizioni sbagliate; ma vengono anche usati a scopo terapeutico e persino preventivo negli allevamenti intensivi e in condizioni igieniche precarie. Non solo, il problema esiste anche rispetto agli animali domestici dove i controlli sono paradossalmente minori che nel caso negli allevamenti”. Paolo Lauriola è un […] L'articolo L’antimicrobico resistenza? La causa è anche negli allevamenti intensivi (e negli animali domestici) proviene da Il Fatto Quotidiano.

“Gli antibiotici si danno in eccesso nell’uomo, a causa di prescrizioni sbagliate; ma vengono anche usati a scopo terapeutico e persino preventivo negli allevamenti intensivi e in condizioni igieniche precarie. Non solo, il problema esiste anche rispetto agli animali domestici dove i controlli sono paradossalmente minori che nel caso negli allevamenti”. Paolo Lauriola è un medico epidemiologo membro di Isde (Associazione Medici per l’Ambiente) e presidente della Ong europea European Public Health Alliance (Epha) da tempo impegnata sul tema dell’utilizzo errato di antibiotici e del fenomeno correlato dell’antimicrobico resistenza (AMR). “Se vogliamo ridurre il problema dell’antimicrobico resistenza”, afferma, “serve un approccio One Health, bisogna integrare diverse competenze: medici per l’uomo, veterinari, farmacisti, agronomi”.
Numeri ormai milionari
La rivista “The Lancet” nel 2024 ha messo nero su bianco i numeri globali dell’antimicrobico resistenza: si stima che ogni anno siano 7,7 i milioni di morti associati a infezioni batteriche, di cui 4.95 associati all’antimicrobico resistenza (ora terza causa di morte dopo infarto e ictus) e 1,27 milioni direttamente causati da resistenza ad antibiotici disponibili per il trattamento.
Secondo i dati dell’European Antimicrobial Resistence Surveillance Network, invece, ogni anno sono circa 670.000 in Europa le infezioni resistenti agli antibiotici e circa 33.000 persone muoiono, come conseguenza diretta delle infezioni e un terzo in Italia, in pratica il triplo delle vittime della strada.
Rispetto all’uso nella popolazione, “il 90% delle prescrizioni avviene per mano di medici e pediatri di libera scelta e solo il restante 10% nelle strutture pubbliche e il 24% dell’uso degli antibiotici è inappropriato per quasi tutte le condizioni cliniche (influenza, raffreddore, faringite, tonsillite, cistite etc),”, spiega sempre l’epidemiologo Lauriola. “In più, esiste purtroppo l’autoprescrizione degli antibiotici (out of pocket), un fenomeno che ha raggiunto la quota del 26,3% dei consumi totali. È poi essenziale ricordare che il destino finale degli antimicrobici eliminati sia dall’uomo che dagli animali è l’ambiente”.
La questione degli allevamenti e degli animali da compagnia
Non c’è dubbio che un ruolo chiave nella diffusione del fenomeno la gioca l’utilizzo di antibiotici negli animali. “È un fenomeno che ha assunto dimensioni enormi e che accelera la diffusione dell’antimicrobico resistenza, anche perché gli antibiotici sono dati anche in via preventiva e non solo curativa e questo fa sì che le tracce di antibiotici restino nella carne consumata”, spiega Bianca Boldrini, responsabile settore Animali negli Allevamenti LAV. “Gli animali sono chiusi in capannoni industriali in condizioni inidonee rispetto ai loro bisogni etologici e questo comporta enormi condizioni di stress e ferite fisiche e psichiche. Inoltre, la selezione genetica che viene fatta punta a renderli produttivi al massimo, con le scrofe che devono fare sempre più maialini, il pollo deve avere un petto sempre più grosso, le bovine devono produrre quantità sempre maggiori di latte. Così il loro sistema immunitario è sempre più simile, sono diventati dei cloni quasi gli uni con gli altri e questo determina un maggior rischio di infezione di malattie. Se ne ammala uno si ammalano anche gli altri”.
Il problema, però non riguarda solo gli animali da allevamento. Secondo Marcello Volanti, veterinario esperto di zootecnia biologica, “almeno nella zootecnia c’è stata negli ultimi due anni una stretta nell’utilizzo di antibiotici, con linee guida più restrittive. Non accade lo stesso per il mondo dei pet, che tra l’altro vivono a strettissimo contatto con noi”.
Attenzione agli slogan pubblicitari
Anche per Volanti, ovviamente, il punto non è solo ridurre gli antibiotici ma cambiare le condizioni di allevamento che portano all’animale un forte stress. “Più vai incontro alle esigenze zoologiche dell’animale, meno l’animale si ammala. Spesso negli allevamenti intensivi gli animali non si muovono, sono chiusi in capannoni e passano la vita dalla mangiatoia all’abbeveratoio, principalmente seduti. Negli allevamenti bio gli animali hanno accesso all’aria aperta, una cosa fondamentale perché il movimento è un capisaldo della salutogenesi, insieme alla nutrizione”.
Secondo l’esperto, la responsabilità non è solo di chi produce, ma anche di chi acquista, “non possiamo comprare prodotti di origine animale a pochi euro”. I consumatori devono stare attenti ai claim pubblicitari: “Quando leggiamo “galline allevate a terra” significa solo che non sono in gabbia, ma restano in capannoni con luce elettrica. Anche la scritta ‘allevato senza uso di antibiotici negli ultimi quattro mesi’ è demagogica, chi mai li utilizza negli ultimi quattro mesi”?
Come ridurre l’uso inappropriato di antibiotici
Secondo The Lancet, entro il 2030 gli obiettivi da porsi sarebbero quelli di una generale riduzione del 10% della mortalità per antimicrobico resistenza, di una riduzione del 20% dell’uso inappropriato nella popolazione umana e del 30% dell’uso inappropriato nel mondo animale.
Cosa fare dunque in concreto? “Diminuire o smettere di mangiare prodotti di origine animale oltre ad essere un discorso etico è anche ambientale e di salute“, spiega Bianca Boldrini di Lav. Per Lauriola “Il problema si risolve con la prevenzione e il controllo delle infezioni, sia in ambito ospedaliero che nelle comunità. A Foggia, a novembre, faremo un’iniziativa che intende coinvolgere i medici di famiglia, gli ospedali, i veterinari, ma anche l’Arpa e l’Istituto zooprofilattico, per estendere più possibile una maggiore sensibilità e conoscenza dei rischi di questo fenomeno, e anche soprattutto avviare un sistema di sorveglianza che coinvolga l’uomo, gli animali e l’ambiente. È, appunto, l’approccio One Health”.
L'articolo L’antimicrobico resistenza? La causa è anche negli allevamenti intensivi (e negli animali domestici) proviene da Il Fatto Quotidiano.