“La tecnosinistra ha favorito le Big Tech Usa. Così oggi l’Europa non ha una visione”: intervista a Vincenzo Sofo (FdI)
Sofo, lei è un uomo di destra: ha co-fondato il think tank IlTalebano.com, è stato eurodeputato della Lega, che poi ha lasciato in occasione della formazione del Governo Draghi, e dal 2021 milita in Fratelli d’Italia. Eppure il suo libro si intitola “Tecnodestra”, un’espressione coniata a sinistra in tono denigratorio nei confronti della destra. Ci […]

Sofo, lei è un uomo di destra: ha co-fondato il think tank IlTalebano.com, è stato eurodeputato della Lega, che poi ha lasciato in occasione della formazione del Governo Draghi, e dal 2021 milita in Fratelli d’Italia. Eppure il suo libro si intitola “Tecnodestra”, un’espressione coniata a sinistra in tono denigratorio nei confronti della destra. Ci spiega la scelta di questo titolo?
«È evidentemente una provocazione. Con il termine “tecnodestra” la sinistra denuncia una presunta liaison che ci sarebbe fra le destre e le Big Tech. Nel mio libro mostro invece come questo mondo dominato dai colossi del digitale esista semmai a causa della liaison che c’è stata tra le Big Tech e le sinistre: è grazie alle agende progressiste se quelle aziende sono diventate sempre più grandi, fino a trasformarsi in vere e proprie potenze geopolitiche».
In che modo le politiche progressiste avrebbero favorito l’ascesa delle Big Tech?
«Il problema sta tutto nel principio sul quale si fonda l’agenda progressista, che consiste nella distruzione di ogni limes, inteso sia come frontiera fisica sia come limite da porre allo sviluppo di chi sta crescendo. Questa iper-globalizzazione punta alla distruzione degli Stati nazionali: un programma che viene dall’alto, attraverso le organizzazioni internazionali, ma anche dal basso, pensiamo al fenomeno delle città globali in antitesi agli Stati nazionali. Tutto ciò ha portato alla creazione di un mondo totalmente interconnesso senza più barriere, in cui chi già aveva una dimensione internazionale ha potuto espandersi oltre ogni limite. Nel mito dell’ultra-liberismo, si è favorita la concentrazione delle ricchezze nelle mani dell’1% più ricco della popolazione e dei colossi multinazionali».
Al Parlamento europeo, però, sono 25 anni che il gruppo di maggioranza relativa è il Partito popolare europeo. Anche il Ppe va annoverato tra i partiti progressisti?
«Negli scorsi anni il Ppe aveva preso una trazione sempre più progressista, o comunque sempre più di compromesso con le sinistre. Ultimamente, invece, si sta spostando verso destra. Sta subendo il traino delle forze più conservatrici e identitarie che raccolgono consensi in tutta Europa. Anche nei singoli Paesi le leadership dei partiti popolari si stanno spostando a destra: i popolari in Spagna, la Cdu in Germania, i repubblicani in Francia».
Adesso quindi tocca alle destre.
«Ora le destre devono capire come gestire questo questo fenomeno, come tradurre in azioni politiche concrete la propria visione del mondo. Questa è la vera sfida delle destre europee oggi».
Negli ultimi mesi abbiamo assistito a una sorta di saldatura tra il mondo delle Big Tech e la destra di Donald Trump. Ma anche se guardiamo al nostro continente, vediamo che Elon Musk ha lanciato il suo «Make Europe Great Again» e ha stretto rapporti molto stretti con tutti o quasi i maggiori leader dell’estrema destra europea. Allo stesso tempo, Musk ha più volte duramente attaccato l’Ue, accusandola di politiche socialiste. Che atteggiamento dovremmo tenere noi europei nei confronti del fondatore di Tesla e Space X e degli altri oligarchi della tecnologia?
«Partiamo dagli Stati Uniti. Trump ha bisogno delle Big Tech e le Big Tech hanno bisogno di Trump. La competizione con la Cina, sia sul piano militare sia su quello economico, si giocherà principalmente sul terreno tecnologico. Alla luce di questo, il presidente ha di fatto chiamato a raccolta i colossi digitali americani puntando a invertire il rapporto che c’è stato finora: se finora queste aziende sono state dominanti nei confronti delle amministrazioni pubbliche, adesso la Casa Bianca sta cercando di metterle al servizio dell’agenda geopolitica nazionale. Le Big Tech lo accettano perché loro sono le prime a essere in competizione con i colossi cinesi. Così si genera una sorta di patto per il quale, da un lato, Trump cerca di mettere questi giganti in condizione di sprigionare tutta la loro forza attraverso una riduzione di lacci e lacciuoli normativi e, dall’altro, le aziende digitali mettono a disposizione la loro forza per gli interessi dell’Amministrazione Usa».
E noi europei in tutto questo?
«L’Europa non ha giganti tecnologici perché non ha investito: ha deciso di essere semplicemente una forza di regolamentazione. Di fronte alla competizione Usa-Cina, dovremmo chiederci quale ruolo vogliamo giocare come Europa. Finché questa cosa non sarà chiara, non potremo avere un ruolo internazionale. Oggi parliamo di difesa comune europea, di riarmo europeo, ma per far cosa? Questo è il vero tema: nessuno però sa dare una risposta, perché non c’è una visione».
Nel recente incontro alla Casa Bianca con Trump, Giorgia Meloni si è schierata contro la web tax che colpirebbe le Big Tech Usa. Ritiene sia un impegno che vada nella giusta direzione?
«Se lei mi chiede, nel particolare, se le multinazionali vanno tassate o no, io le rispondo che vanno tassate. Ma il problema è più ampio. Noi europei abbiamo le armi spuntate. Sul fronte tecnologico siamo in una condizione di dipendenza da altri e abbiamo un potere decisionale per forza di cose limitato: siamo costretti a cercare dei punti di mediazione. Se un compromesso sulla web tax ci permette di scongiurare rischi che non potremmo affrontare, allora quella scelta è giusta. Detto ciò, io credo che, considerate le armi spuntate a disposizione dell’Europa, l’Italia si stia ritagliando un ruolo che forse è addirittura al di sopra della propria capacità».
Nel suo libro lei scrive: «Pensarsi Europa è l’unica via d’uscita possibile in un mondo dove erompono prepotenti vecchie e nuove forme di imperialismo». A prima vista, sembrerebbe una presa di posizione in contrasto con la «Europa delle nazioni» propugnata da Meloni.
«L’Europa delle nazioni è anch’essa Europa. La destra non è, e non deve essere, anti-europea. La dimensione europea è una dimensione patriottica identitaria essenziale per noi: è la nostra civiltà. La destra, però, contesta un progetto europeo che fino ad oggi è servito poco o nulla rispetto all’obiettivo di diventare una potenza geopolitica. Proporre un altro tipo di governance non significa non volere l’Europa: significa voler capire quali sono gli strumenti più adatti e più efficaci per sprigionare la potenza del progetto europeo».
Sua moglie Marion Maréchal, nipote di Marine Le Pen, sostiene la necessità di un’alleanza in Francia tra l’estrema destra di sua zia e i più moderati gollisti. Il modello di riferimento è il centrodestra italiano?
«Esattamente. È evidente che raccogliere il 50% + 1 dei voti da soli è molto complicato. Uno dei motivi per cui, nel 2017, mia moglie lasciò il Front National fu proprio il disaccordo rispetto alla sua proposta di creare dei punti di dialogo con gli altri partiti di destra o centrodestra. L’Italia dimostra che questo tipo di modello è vincente».
Come valuta la sentenza che ha dichiarato Marine Le Pen ineleggibile per i prossimi cinque anni?
«Le Pen non è stata condannata per aver ottenuto un arricchimento personale, la sentenza riguarda una disputa tra un partito e un’istituzione, il Parlamento europeo, relativa al ruolo degli assistenti locali. Si tratta di una condanna in primo grado, non definitiva, eppure il giudice ha deciso di sanzionare con una ineleggibilità preventiva la leader del partito che al momento della sentenza era nettamente in testa a tutti i sondaggi. Faccio notare che il prossimo presidente francese avrà un peso determinante rispetto, ad esempio, al riarmo europeo, alla difesa comune europea, alla condivisione dell’arma nucleare francese con l’Europa, dovrà decidere se cedere il seggio francese al Consiglio di sicurezza Onu alla Commissione europea… In Europa bisognerebbe sorvegliare affinché le elezioni presidenziali francesi del 2027 non siano falsate, affinché siano elezioni in cui il consenso del popolo sia rispettato e non ci sia invece un tentativo di impedire a qualcuno di accedere al potere».