Il Manifesto di Ventotene. Né socialista né sociale: un inno al federalismo neoliberale

Il Manifesto di Ventotene è senza dubbio un testo tra i più citati nel discorso pubblico, ma anche tra i meno letti da coloro i quali amano richiamarlo. Questo restituisce […]

Mar 21, 2025 - 15:24
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Il Manifesto di Ventotene. Né socialista né sociale: un inno al federalismo neoliberale

Il Manifesto di Ventotene è senza dubbio un testo tra i più citati nel discorso pubblico, ma anche tra i meno letti da coloro i quali amano richiamarlo. Questo restituisce la recente lite scomposta tra i dirigenti del Piddì e la Presidente del consiglio: i primi impegnati ad accreditarlo come una celebrazione dell’Europa sociale e democratica, la seconda a stigmatizzarlo come socialista e dunque antidemocratico.

Entrambi sbagliano: il Manifesto di Ventotene è un inno all’Europa neoliberale e il suo estensore più famoso, Altiero Spinelli, un pensatore confuso e opportunista. Tanto che molto probabilmente ci saremmo dimenticati di entrambi, se solo la sinistra storica in crisi di identità dopo l’implosione del blocco socialista non ne avesse abusato per rimpiazzare i punti di riferimenti ideali caduti in disgrazia. È del resto il testo scritto da antifascisti al confino, che qua e là parla di Europa sociale. Non importa dunque se lo fa a sproposito e soprattutto in assenza di riscontri con il complessivo impianto del Manifesto, così come con il percorso politico di Spinelli. È comunque buono a riorganizzare il fondamento ideale della sinistra orfana del socialismo attorno a retoriche vuote e buone per tutte le stagioni, come sono quelle che evocano un non meglio definito europeismo. E buono soprattutto a far dimenticare che esso fa rima con neoliberalismo[1].

Federalismo neoliberale

Il primo riscontro della vicinanza tra il Manifesto di Ventotene e il neoliberalismo lo ricaviamo dalle letture che più hanno ispirato i suoi autori: gli interventi di Luigi Einaudi ospitati sul Corriere della sera tra il 1917 e il 1919 con lo pseudonimo di Junius e gli scritti dei federalisti anglosassoni. Spicca tra questi ultimi  Lionel Robbins: un autore di formazione liberale, esponente della Scuola austriaca, i cui testi giungono agli autori del Manifesto proprio da Einaudi.

Robbins sviluppava la sua linea di pensiero a partire da una polemica sulle cause della guerra sorta attorno ad alcuni scritti socialisti. Contestava infatti che fosse un prodotto del capitalismo: il conflitto era imputabile alla sovranità statale, alla base della volontà politica di difendere interessi nazionali su pressione dei centri di interesse economico, lavoratori inclusi[2]. Di qui la proposta di una federazione tra Stati incaricata di presidiare la libera circolazione delle merci e dei capitali, oltre che di decidere la politica monetaria[3]. Avrebbe disinnescato il conflitto redistributivo e con esso il conflitto tra Stati.

Ostilità nel confronti della democrazia

La versione del Manifesto di Ventotene pubblicata a Roma clandestinamente da Eugenio Colorni contiene due saggi di Spinelli a cui è opportuno fare un breve riferimento perché chiariscono il suo punto di vista sulla democrazia e il capitalismo. Lì emerge infatti una prima critica definitiva al conflitto di classe come scontro tra «interessi sezionali» facenti capo a «gruppi borghesi» e a «gruppi operai», i quali esercitano sullo Stato una influenza tale da indurlo ad «abolire la concorrenza» e renderlo così il loro «rappresentante» ed «esecutore materiale». Il tutto da ritenersi una sorta di ineludibile degenerazione alimentata dalla dimensione nazionale, a cui ci si può sottrarre unicamente creando le condizioni affinché possano esprimersi al meglio le virtù del «libero mercato». Solo il superamento della dimensione nazionale conduce invero alla «fusione delle malate economie nazionali in un’unica sana economia europea»[4].

Occorreva insomma uscire dal secondo conflitto mondiale superando le «democrazie nazionali», perché queste non erano capaci di resistere alle «pressioni particolari giungenti dal basso». Erano al contrario portate «a far propri e a esprimere le aspirazioni spontanee delle masse», e in ultima analisi a «lasciarsi influenzare da motivi patriottici, classisti o sezionali». Giacché «i democratici, desiderosi di rappresentare la volontà popolare, facilmente finirebbero per diventare… strumenti di questo o quel gruppo particolare, mirante a conquistare la direzione dello Stato e a impegnarne la forza per far valere i propri particolari interessi»[5].

La denigrazione della democrazia domina anche il Manifesto di Ventotene, dove pure si celebra l’affermazione dell’«eguale diritto di tutti i cittadini alla formazione della volontà dello Stato»: ha permesso «di correggere o almeno di attenuare molte delle più stridenti ingiustizie» e dunque di colpire «i diritti acquisiti delle classi abbienti». Queste hanno però reagito contrastando l’affermazione dell’«uguaglianza di fatto», e con essa i «diritti politici» a cui era si era finalmente attribuito «un contenuto concreto di effettiva libertà». Di qui la formazione di gruppi di pressione ispirati da «giganteschi complessi industriali e bancari», ma anche di «sindacati riunenti sotto un’unica direzione interi eserciti di lavoratori», impegnati a dar vita a scontri cruenti tra «baronie economiche». Per poi aprire la strada alla deriva totalitaria: «gli ordinamenti democratico liberali, divenendo lo strumento di cui questi gruppi si valevano per meglio sfruttare l’intera collettività, perdevano sempre più il loro prestigio, e così si diffondeva la convinzione che solamente lo Stato totalitario, abolendo la libertà popolare, potesse in qualche modo risolvere i conflitti di interessi che le istituzioni politiche esistenti non riuscivano più a contenere»[6].

Altrimenti detto: il conflitto sociale ha prodotto il fascismo. Tutto l’opposto di quanto costituisce il fondamento del costituzionalismo democratico e sociale, per il quale il fascismo è il prodotto della virulenza dei mercati, e il conflitto sociale lo strumento per prevenirla.

Il socialismo di Rossi e Spinelli

Veniamo ai riferimenti al socialismo contenuti nel Manifesto di Ventotene e in particolare all’affermazione per cui la «rivoluzione europea dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi la emancipazione delle classi lavoratrici e la realizzazione per esse di condizioni più umane di vita»[7]. Certo, il socialismo cui si allude non è quello rivoluzionario e tuttavia Rossi e Spinelli non escludevano che si potesse procedere «a nazionalizzazioni su scala vastissima» delle imprese operanti in regime di monopolio e dunque «in condizioni di sfruttar la massa dei consumatori», e che si dovessero redistribuire «in senso egualitario» le ricchezze accumulate «nelle mani di pochi privilegiati»[8].

Il tutto mentre occorreva promuovere attivamente l’uguaglianza: riducendo «al minimo le distanze nella posizione di partenza nella lotta per la vita», in particolare edificando un sistema della sicurezza sociale concepito in modo tale che «nessuno sarà più costretto dalla miseria ad accettare contratti di lavoro iugulatori», e rendendo accessibili a tutti beni di prima necessità come «il vitto, l’alloggio, il vestiario»[9]. Quest’ultimo obiettivo non si sarebbe però perseguito coinvolgendo i pubblici poteri nella produzione di quei beni, e neppure imponendo ai privati un regime di prezzi amministrati: si sarebbe fatto affidamento sulla «tecnica moderna», ovvero sulle «potenzialità quasi senza limiti della produzione in massa»[10].

Come si vede, il Manifesto di Ventotene ha poco di socialismo. Tutt’al più ha venature leniniste laddove reputa la democrazia inadeguata a fronteggiare la fase successiva al crollo dei regimi fascisti, che in quanto fase rivoluzionaria richiedeva la rifondazione delle istituzioni e non la loro mera amministrazione: un compito cui il popolo non sarebbe capace di assolvere perché «ha sì alcuni fondamentali bisogni da soddisfare, ma non sa con precisione cosa volere e cosa fare». Di qui la necessità di affidarsi a capi illuminati, i soli capaci di impedire che la partecipazione democratica degeneri nel conflitto redistributivo, e questo prepari il terreno al «ritorno del potere nelle mani dei reazionari»[11].

Se peraltro il socialismo del Manifesto di Ventotene si riduce al rigetto della democrazia, è chiaro che ben può ritenersi compatibile con un progetto neoliberale. Soprattutto se si tiene conto del testo nel suo complesso, oltre che del percorso politico che compirà Spinelli dopo la conclusione del secondo conflitto mondale.

Burocrazia europea e potentati economici

Dopo aver tentato invano di promuovere la causa federalista, non certo fatta propria dalla costruzione europea così come si era realizzata con la nascita della Comunità economica europea, Spinelli decide di rilanciarla promuovendo una inquietante saldatura tra burocrazia europea e potentati economici. Il tutto a partire da una considerazione che dovrebbe suonare non poco stonata alle orecchie di chi lo reputa il padre dell’Europa sociale: «il mercato comune ha un enorme successo», tanto che «il suo metodo di lavoro sembra dover diventare la via maestra della costruzione europea»[12].

Ma procediamo con ordine, e muoviamo innanzi tutto da quanto lo Spinelli afferma a proposito del metodo funzionale: lo stesso metodo prima avversato come approccio all’unificazione europea fondata sull’azione di entità tecnocratiche incapaci di promuovere «un centro di raccolta progressiva di interessi, di sentimenti, di volontà europee»[13]. Ebbene, proprio questo approccio viene infine reputato alla base dei successi del mercato comune: della sua capacità di disinnescare «l’effervescente, superficiale e poco conclusiva lotta politica» e di imporre in sua vece «la lenta progressiva coagulazione di abitudini e di interessi» ottenuta con «la guida silenziosa ma efficiente dei saggi mandarini di un’amministrazione sovranazionale»[14].

Spinelli ritiene insomma che la Commissione europea abbia «progettato una vera e propria rivoluzione istituzionale senza averla fondata su alcuna strategia e tattica politica». E che ha potuto farlo perché si è collegata alla fitta rete di associazioni professionali europee sorte per «la sorveglianza e la promozione degli interessi della propria categoria», ma nel contempo capaci di operare come «centri di promozione della costruzione europea»[15].

Altrimenti detto, la Commissione ha avallato uno sviluppo della costruzione europea come «Comunità fondata non sul consenso popolare», bensì sul «consenso di interessi economici». E così facendo ha incontrato il favore di Spinelli, il cui pensiero compie una torsione particolarmente rappresentativa della sua appartenenza organica al campo neoliberale: dopo aver demonizzato il conflitto sociale mediato dal conflitto democratico, finisce per celebrare lo scontro tra centri di interesse economico disciplinato da strutture tecnocratiche quale meccanismo idoneo a «suscitare una coagulazione crescente e permanente di interdipendenze»[16]. Il conflitto sociale è del resto capace di mettere in discussione la centralità del mercato come strumento di redistribuzione della ricchezza, mentre lo scontro tra centri di interesse economico produce la pacificazione tra capitale e lavoro indispensabile a ridurre l’inclusione sociale a inclusione nel mercato.

Spinelli commissario e parlamentare europeo

A partire dagli anni Settanta Spinelli si adopera in prima persona per portare avanti la sua visione. Assume prima la carica di Commissario agli affari industriali, che ricopre dal 1970 al 1976: una posizione particolarmente adatta a promuovere la saldatura tra la burocrazia europea e i potentati economici. Si impegna poi nel Parlamento europeo ancora formato da delegati designati dai Parlamenti nazionali fra i propri membri, motivo per cui si fa eleggere come indipendente nelle liste del Partito comunista nella tornata del 1976. Si candida poi alle prime elezioni dirette al Parlamento europeo del 1979, dove viene eletto e riconfermato nel 1984, sempre come indipendente nelle liste comuniste.

In questa fase l’apporto di Spinelli alla realizzazione dell’Europa neoliberale si ricava dal suo contributo all’elaborazione del Progetto di Trattato che istituisce l’Unione europea del 1984. Un contributo tanto rilevato che esso è conosciuto con il nome di Progetto Spinelli.

A ben vedere il Progetto non è un articolato di matrice apertamente neoliberale. Contiene alcune disposizioni relative all’edificazione di una Europa sociale, che sono però in netto contrasto con la sua ispirazione di fondo: quella concernente lo sviluppo di un mercato senza Stato. Ispirazione che emerge in modo evidente dalla individuazione delle competenze esclusive dell’Unione: la politica economica, con esplicita menzione della libera circolazione delle merci e dei fattori produttivi, inclusi evidentemente i capitali, e la politica della concorrenza, comprendente fra l’altro il divieto di «qualsiasi discriminazione tra le imprese private e pubbliche».

Il Progetto Spinelli fu adottato a larghissima maggioranza dal Parlamento europeo, ma non ebbe seguito per l’indifferenza se non l’aperta ostilità degli Stati membri. Fu però alla base degli sviluppi impressi alla costruzione europea a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta: quando si avviò il percorso che ha poi condotto alla moneta unica, e con essa al definitivo consolidamento dell’Europa dei mercati.

Punto di partenza del percorso fu il Libro bianco sul completamento del mercato interno, confezionato dalla Commissione europea presieduta da Jacques Delors nel 1985 e posto alla base dell’Atto unico europeo del 1986: l’inizio del percorso verso la moneta unica, significativamente avviato con l’attuazione della libera circolazione dei capitali.

Spinelli scomparve nello stesso anno, ma fece in tempo a sostenere l’Atto unico pur ritenendolo insoddisfacente dal punto di vista federalista. La convergenza tra le idealità di Spinelli e le modalità scelte per giungere alla moneta unica venne del resto sottolineata, oltre che da Delors[17], anche da convinti europeisti[18]. E comunque l’Europa costruita attorno al mercato unico e al riparo dalla partecipazione democratica non può certo ritenersi una deviazione rispetto al suo pensiero, almeno quello ricostruito oltre la cortina fumogena del mito o peggio di un dibattito politico surreale. Un dibattito dal quale ricavare ulteriori riscontri di come Manifesto di Ventotene sia un testo tra i più citati ma anche tra i meno letti.


[1] Ho sviluppato questi temi in A. Somma, Contro Ventotene. Cavallo di Troia dell’Europa neoliberale, Roma, 2021. V. anche A. Somma, Oltre il mito. Il Manifesto di Ventotene nel prisma del pensiero neoliberale, in Specula iuris, 2022, 1, p. 177 ss. (disponibile qui: https://www.academia.edu/95966170/Oltre_il_mito_Il_Manifesto_di_Ventotene_nel_prisma_del_pensiero_neoliberale).

[2] L. Robbins, Le cause economiche della guerra (1939), Torino, 1944, pp. 57 ss. e 85 ss.

[3] L. Robbins, Aspetti economici della federazione (1941), in H. Brugmans et al., Federazione europea, Firenze, 1948, pp. 221 ss. e 242 ss.

[4] A. Spinelli, Politica marxista e politica federalista (1943), in Id. ed E. Rossi, Il Manifesto di Ventotene, Milano, 2017, pp. 81 ss. e 101 ss.

[5] A. Spinelli, Gli Stati Uniti d’Europa e le varie tendenze politiche (1942), ivi, p. 39 ss.

[6] A. Spinelli ed E. Rossi, Il Manifesto di Ventotene, cit., p. 13 s.

[7] Ivi, p. 26.

[8] Ivi, p. 26 ss.

[9] Ibidem.

[10] Ibidem.

[11] Ivi, p. 19 ss.

[12] A. Spinelli, Rapporto sull’Europa, Milano, 1965, p. 21.

[13] A. Spinelli, Il Manifesto dei federalisti europei (1957), Camogli e Ventotene, 2016, p. 57 ss.

[14] A. Spinelli, Rapporto sull’Europa, cit., p. 18 ss.

[15] Ivi, pp. 113 ss. e 205.

[16] Ivi, pp. 123 e 131.

[17] Cfr. G. Azzariti, Diritto o barbarie. Il costituzionalismo moderno al bivio, Roma e Bari, 2021, p. 140.

[18] A. Venece L’Europa possibile. Il pensiero e l’azione di Altiero Spinelli, Roma 2010, p. 88.