Il malore rivelatore. Una madre non sviene per pura strategia
L’idea di poter nuocere al figlio l’ha travolta. Fa parte dei meccanismi basilari della sopravvivenza.

Alberto Stasi è già semi-libero. Andrea Sempio è di nuovo un nome che pesa nel delitto di Garlasco. Mentre uno torna a respirare fuori dal carcere, l’altro rientra dalla finestra della memoria giudiziaria. Diciotto anni dopo, la madre dell’amico di Marco Poggi, fratello di Chiara, tace davanti ai carabinieri di Milano esercitando ai sensi del 199 cp un diritto pieno, quello di non parlare in quanto prossimo congiunto. E crolla sotto la pressione. Il suo silenzio di lunedì scorso, però, nella logica spietata della cronaca, parla più di mille parole. Ma è davvero così? Daniela Ferrari, la mamma di Andrea, entra in caserma preparata a proteggere suo figlio. Sa cosa non dire, sa dove fermarsi. Ma non sa che, da un momento all’altro, il terreno sotto di lei cederà. Le pongono una domanda inattesa. Non su Andrea, ma su un altro nome. Una deviazione improvvisa che rompe l’equilibrio. E in quell’istante, non è più lei a decidere. Il respiro si incrina, il volto si svuota, il corpo si difende. Il malore arriva come uno schianto. Non si rialza. Nemmeno dopo. Non trova più le parole. Solo lacrime, e il bisogno di sparire. È quello che in psicologia si chiama somatizzazione emotiva, ma sul piano criminologico è molto di più: è il punto esatto in cui il bisogno di proteggere chi ami si scontra con il timore paralizzante di non saperlo fare, il momento in cui la tensione emotiva oltrepassa la soglia e si fa carne, sintomo, collasso.
Quando il legame affettivo si sovrappone all’ansia di sbagliare, non resta che l’automatismo: il corpo prende il comando, e smette di fingere. Niente filtri, niente controllo. Solo allarme. Puro. Una madre non sviene per strategia. Una madre non piange per copione. Crolla perché l’idea di poter nuocere, anche solo con uno sguardo fuori posto, è più intollerabile della paura stessa. E chi conosce la dinamica delle reazioni sotto pressione lo sa bene: il panico non si simula ed il cedimento non si inventa. È una risposta primaria che passa sotto il nome di sopravvivenza.
Non serve forzare interpretazioni quanto piuttosto comprendere che certi segnali non indicano presuntivamente profili di dubbio, ma limiti. E chi li raggiunge non agisce in malafede. È qualcuno che sta cercando di sostenere un peso che, in quel momento, è semplicemente troppo. Una domanda sbagliata, un nome imprevisto, ed ecco la frattura. Quella vera. Quella che non si vede nei verbali ma resta impressa nel corpo e nell’anima di chi la sperimenta. Alla fine, però, resta solo Chiara. Chiara Poggi, che non può più parlare. Tutto ciò che si muove attorno a lei oggi, un’interrogatorio, un crollo, una reazione imprevista, ha senso solo se serve a ricostruire ciò che è stato strappato. Tutto il resto è rumore. E anche se sono passati diciotto anni, Chiara Poggi merita di più.