Ho subito molestie in volo e ho registrato tutto. Ma pensare di avere il controllo della situazione è un’illusione
di Linda Caglioni Che il mio volo Palermo-Milano non sarebbe stato rilassante l’ho capito subito. Il tempo di allacciare la cintura di sicurezza e di sentire l’uomo sui 30 accanto a me biascicare una domanda inutile, di quelle per cui la risposta corretta non c’è mai. “Quanta fretta di allacciarti la cintura, hai paura di […] L'articolo Ho subito molestie in volo e ho registrato tutto. Ma pensare di avere il controllo della situazione è un’illusione proviene da Il Fatto Quotidiano.

di Linda Caglioni
Che il mio volo Palermo-Milano non sarebbe stato rilassante l’ho capito subito. Il tempo di allacciare la cintura di sicurezza e di sentire l’uomo sui 30 accanto a me biascicare una domanda inutile, di quelle per cui la risposta corretta non c’è mai. “Quanta fretta di allacciarti la cintura, hai paura di qualcosa?”. “La allaccio quando mi pare”, rispondo io, pentendomi subito di avergli rivolto la parola. Perché, chi lo sa, forse è uno di quei tipi con cui il silenzio sarebbe stato più efficace. O forse avrei dovuto metterci meno aggressività per non dargli importanza. Oppure è andata bene così, magari è uno di quegli altri tipi ancora, che di fronte al primo fuoco nemico battono in ritirata.
Ragiono sulle variabili ma per poco, la sua voce interrompe il mio dibattito interiore. “Tutto ok? Ti vedo nervosa”. Incanalo tutta l’ira che questa frase mi provoca in un “sono tranquillissima, ma non voglio parlare con te”. È una risposta che mi sono allenata a pronunciare sempre più spesso in casi simili, nella maggior parte delle volte funziona. Non stavolta.
Dal riflesso del finestrino mi accorgo che il mio vicino mi studia come fossi un insetto curioso. Non fa alcuno sforzo per non farsi beccare a fissarmi, e mi arriva l’illuminazione: il mio sentirmi a disagio o la mia serenità o la mia indifferenza non lo riguardano. Fin dall’inizio non c’erano risposte giuste o sbagliate che io potessi dare.
Ieri notte non è andata così. E se mi sforzo di recuperare il momento in cui è passato dal parlarmi della sua famiglia al confessarmi il suo desiderio di saltarmi addosso e di “sfondarmi” (cit), devo dire che non me lo ricordo. Il passaggio è sfocato. Ho pensato che potevo chiedere un cambio di posto, l’intervento di qualcuno. Ma cosa succede se la prende male e mi aspetta all’uscita dell’aeroporto? Qualcuno ci sarà, mi dico, non saremo soli. Ok, ma è decisiva la presenza di altri individui nel frenare un’aggressione?
Bloccata in un circuito di argomentazioni, gli ricordo che tutte le cose che mi sta dicendo sono molestie. Che non ricambio il suo interesse, che ha oltrepassato il limite e deve smetterla. Nel frattempo il mio corpo ha risposto a modo suo, mi ritrovo senza accorgermene schiacciata nell’angolo del mio sedile perché lui invade col suo busto sempre di più il mio spazio.
Lo scambio è così surreale che registro tutto. La variabile della sua voce inchiodata lo inibisce solo limitatamente, ma il suo obiettivo resta chiaro: deve avermi, e aggiunge che nonostante io dica il contrario, anche io in realtà lo desidero, perché “altrimenti non gli avrei parlato”. Eccola lì, la mia colpa. Come avevo potuto dimenticare la lezione regina, così solida e immensa da finir per occupare tutta la visuale e passare inosservata. Sono io che gli ho dato corda.
Mi invento un fidanzato, ho imparato che un uomo che non mostri alcun rispetto per una donna possa invece averne verso un uomo indicato come il legittimo proprietario del corpo in questione. Nel mio soggetto X, però, l’elemento di un pene stabile nella mia vita ha solo rafforzato la sua convinzione che avevo bisogno di “essere scopata” (forma passiva voluta) e che probabilmente avevo trovato solo “piselli flosci” (la prova per lui era il fatto che gli avevo parlato, perché una donna soddisfatta non parla con nessuno).
Ha anche detto che aveva studiato un sacco di libri per leggere la mente, per questo era sicuro che io ricambiassi il suo interesse. Ho pensato che anche io avrei voluto leggere nella sua, scoprire se progettava, una volta in aeroporto, un finto dileguamento con attacco finale in qualche angolo un po’ meno illuminato. Non potendo leggere le sue intenzioni, scesi dall’aereo all’una di notte ho aspettato che si allontanasse. Ma anche una volta da sola ho sentito il bisogno di continuare a guardarmi le spalle e prima di entrare in una toilette ho atteso che ci fosse almeno un’altra donna.
Possiamo decretarla una molestia “finita bene”, come ce ne sono centinaia ogni giorno. Avere la registrazione però ha scoperchiato un bisogno che non sapevo di avere, ossia l’urgenza di condividerlo con le amiche e chiedere loro un’opinione sulle mie risposte, sperare di ricavarne così la conferma di essermi mossa bene.
Se scompongo gli eventi quello che ne ricavo è:
– ho fatto un viaggio dove sono stata molestata da uno sconosciuto;
– ho registrato le sue parole per avere una prova a mio favore nel caso in cui qualcuno dei passeggeri avesse poi detto che gli stavo dando corda;
– nonostante questo, alla fine ho riascoltato più volte l’audio e quella che ho avuto bisogno di giudicare più di chiunque altro sono stata io.
A volte siamo anche noi disposte a credere che l’esito sia nelle nostre mani, perché responsabilizzarci rispetto a quello che ci è successo ci fa illudere di essere in controllo e ci fa sentire più tranquille. Ma lo insegna anche la comunicazione italiana sui femminicidi, dove del colpevole si sottolineano sempre le unicità che lo rendono un mostro ma in fondo raro e con un passato difficile, mentre della vittima si mettono in luce le mancanze, le cose che avrebbe potuto fare per non morire o non essere stuprata, in un perverso gioco a spingere il traguardo della salvezza sempre appena un po’ più in là, nelle azioni che non è stata così lungimirante da compiere.
La lezione a essere le responsabili della propria salvezza e del proprio dramma inizia appena si ha coscienza del mondo e dura per sempre. In una situazione di vago pericolo pensiamo a tutte le variabili, e siamo così veloci e allenate a farlo che ci siamo dimenticate della follia di doverci percepire come soggetti a rischio, di quanto sia assurdo pensare che la nostra salvezza dipenda da un susseguirsi di bivi valutativi in cui speriamo di imboccare di volta in volta la strada giusta.
E se qualcosa di male accade è perché l’allieva non si è applicata, ma che il suo esempio sia almeno da monito alle altre. La sopravvivenza era dietro l’angolo. Bastava non sottovalutare il pericolo, tagliare i ponti, bere un po’ di meno, vestirsi un po’ di più, chiedere aiuto prima, chiedere aiuto meglio, non uscire con uno sconosciuto, non dare confidenza, rientrare prima la sera, non viaggiare da sola o, come è stato spesso ripetuto su Sara Campanella, essere un po’ meno indipendenti.
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