Fini e rischi dei dazi trumpiani anche per l’America

Obiettivi, portata e incognite. I dazi di Trump analizzati da Liturri

Mar 19, 2025 - 10:15
 0
Fini e rischi dei dazi trumpiani anche per l’America

Obiettivi, portata e incognite. I dazi di Trump analizzati da Liturri

Nella precedente puntata abbiamo parlato del rapporto tra amministrazione Trump e andamento dei mercati finanziari, mettendo a nudo le letture superficiali o, peggio, intrise di pregiudizio. Qui ci occupiamo dei tanto annunciati e discussi dazi, di cui abbiamo spiegato qui i potenziali effetti, sottolineando l’impossibilità di determinare con certezza l’esito di certe decisioni. Invece impazzano ormai da settimane analisi che dispensano terrorismo intriso di granitiche certezze sul Male (Trump) da una parte e il Bene (la globalizzazione e il mercantilismo europeo) dall’altra.

Cominciamo col dire che, finora, è stato più il rumore del segnale. Infatti, i dazi su acciaio e alluminio sono la riproposizione di quelli del Trump I, così come la risposta della Ue è stata identica a quella implementata e poi sospesa nel 2018.

La novità invece è quella dei dazi a carico delle importazioni da Messico e Canada che però ci portano il cuore della vicenda. Queste misure, proprio perché dirette verso gli Stati confinanti che fungono da “conto lavorazione” per l’industria manifatturiera Usa e mondiale per produrre merci da consumare negli States, sono il manifesto della politica economica di questa amministrazione Usa.

I dazi sono lo strumento – un’imposta sui beni importati – che modifica le condizioni di convenienza relativa dei produttori (stranieri), degli importatori e dei consumatori (Usa). Con l’obiettivo finale di irrobustire il settore privato manifatturiero Usa e colmare parzialmente lo squilibrio della bilancia commerciale statunitense. Un cambio di paradigma di portata epocale: più forza al settore privato (via deregulation e dazi), ridimensionamento del settore pubblico (via meno spesa pubblica e meno imposte e più dazi, riducendo il deficit/Pil al 3%), con dollaro relativamente forte e inflazione sotto controllo, porterà più produttività e salari più alti. Gli USA non saranno più l’economia sussidiata da un enorme deficit pubblico e basata sulle importazioni, recitando il ruolo di consumatore mondiale di ultima istanza.

L’inghippo sta nei tempi. Si tratta infatti di una transizione delicatissima. L’economia Usa non è un barchino ma è un transatlantico la cui prua richiede tempo per virare e raggiungere la nuova direzione di marcia con un nuovo assetto. E Trump non ha tantissimo tempo, perché le elezioni di mid-term nel 2026 saranno già un test significativo. E nel periodo transitorio, potrebbero manifestarsi conseguenze negative in grado di erodere il consenso popolare del tycoon e far dubitare dell’efficacia delle sue scelte.

Quello che è certo è che non stiamo assistendo alle mosse casuali di un Presidente che fa la prima cosa che gli passa per la testa. C’è un metodo, ci sono degli obiettivi e ci sono degli strumenti, i quali ovviamente non garantiscono il successo del piano.

Peraltro questa politica economica non è nemmeno così diversa da quella del primo mandato che dette il via ad un lunghissimo ciclo (quasi 8 anni, fino a metà febbraio) di rialzi borsistici. La differenza fondamentale è che allora i tagli alle imposte precedettero i dazi. Questa volta sta accadendo il contrario. E questo, ai fini della crescita non è affatto neutrale. All’epoca il contraccolpo dei dazi quasi non fu percepito perché l’economia USA viaggiava sull’onda dell’entusiasmo di significativi tagli di imposte. Questa volta la sequenza è diversa ed è arrivata prima il bastone dei dazi e poi arriverà la carota delle minori tasse. E su questo Trump rischia. Perché i benefici dei dazi si manifesteranno solo quando il settore produttivo USA si sarà adeguato ai nuovi prezzi relativi, investendo e riportando alcune filiere nei confini nazionali. Parliamo di anni, durante i quali alcuni colli di bottiglia produttivi potrebbero generare inflazione.

Se i benefici fiscali tardassero ad arrivare, Trump potrebbe avere difficoltà a reggere gli effetti negativi di una correzione dei corsi azionari, un’inflazione restia a rientrare verso il 2% e una lieve recessione.

A chi rifiuta le descrizioni tra l’isterico e il terroristico che vengono fatte delle decisioni di Trump sui dazi, proponiamo le recenti parole del membro del consiglio dei governatori della Fed, Christopher Wallen: «La mia visione di base è che qualsiasi imposizione di tariffe aumenterà i prezzi solo in modo modesto e non persistente. Quindi preferisco esaminare questi effetti quando stabilisco la politica monetaria al meglio delle nostre capacità. Naturalmente, ammetto che gli effetti delle tariffe potrebbero essere maggiori di quanto prevedo, a seconda di quanto sono grandi e di come vengono implementate. Ma dobbiamo anche ricordare che è possibile che altre politiche in discussione possano avere effetti positivi sull’offerta e esercitare una pressione al ribasso sull’inflazione.».

I dazi vengono continuamente demonizzati, specialmente attraverso confronti storici che non colgono le differenze con la situazione attuale. Il medesimo strumento di politica economica è utile o dannosa in dipendenza di specifiche circostanze. Quindi le valutazioni vanno fatte caso per caso.

La critica più fondata alla politica dei dazi è quella apparsa a più riprese sul Wall Street Journal. Infatti ridurre il deficit commerciale Usa significa, fermo tutto il resto, anche ridurre i capitali che affluiscono verso il grande mercato finanziario Usa. Per definizione contabile, un Paese importatore netto di merci è anche importatore netto di capitali, con cui paga gli acquisti. Simmetricamente, il Paese esportatore netto è detentore di attività finanziarie sull’estero. E se l’estero si chiama Wall Street difficilmente avrà voglia di venderle per investire nella… rupia indonesiana. Trump non può avere la botte piena (le Borse che salgono) e la moglie ubriaca (il deficit commerciale in riduzione).

È stato proprio Draghi in un recente intervento sul Financial Times a rilevare che il grado di apertura all’estero dell’economia dell’Eurozona è “insolitamente elevato”. Pur avendo un grade mercato unico, preferiamo commerciare con chi ne è al di fuori. Gli scambi con l’estero sono pari al 55% del PIL dell’Eurozona, contro il 25% degli Usa e il 37%. “Fonte di vulnerabilità”, nella definizione dello stesso Draghi.

Sulla stessa linea un recente intervento di Isabel Mateos y Lago, capo economista di BNP Paribas, a favore di un deciso aumento del commercio intra UE. Basterebbe un aumento del 2,4% di tali scambi interni per compensare una perdita del 20% nell’export verso gli Usa. Questo per chi si straccia le vesti a causa dei dazi.

I dazi degli Usa verso la Ue potrebbero paradossalmente rivelarsi lo strumento per raggiungere un riequilibrio delle rispettive bilance commerciali, auspicato da molti, con l’effetto di generare quella spinta verso il mercato interno che proprio oggi, lo stesso Draghi al Senato (…siamo sicuri che vogliamo mantenere questo gigantesco surplus commerciale col resto del mondo o piuttosto non è meglio sviluppare la domanda interna, non trascurare le nostre infrastrutture, spendere per la ricerca?…)” ha definito come lo scenario preferibile per il rilancio dello sviluppo della Ue e dell’Eurozona.

Un mondo dove lo stato di salute dell’economia di un Paese dipende troppo dai consumi di un altro Paese situato agli antipodi è un mondo instabile. Ciò non significa andare verso un’antistorica autarchia, significa solo riconoscere che ci siamo spinti troppo oltre con la globalizzazione e che esiste una via intermedia.