Enzo Fileno Carabba: "Noè ci fa capire chi siamo. Nel dialogo col mondo animale le tracce per la nuova salvezza"
Il romanzo dello scrittore fiorentino dedicato a una figura che ci accompagna da millenni. Fra mito e metafora: "Il diluvio è quel tipo di acqua che sale quando il livello dell’umanità scende" . .

È stato l’unico – quantomeno uno dei pochissimi – che non ha mai potuto dire la famosa frase "dopo di me il diluvio". Ora, con la sua arca piena di animali, Noè è il protagonista del nuovo romanzo di Enzo Fileno Carabba, appena uscito per Ponte alle Grazie (L’arca di Noè).
Carabba, perché Noè?
"Perché quella dell’arca di Noè e del diluvio universale è una storia di distruzione e speranza, un’Apocalisse che avviene nella Genesi. Una storia che è sempre piaciuta. Che è diffusa in tutto il mondo. Che troviamo nella Bibbia, ma che è anche più antica della Bibbia: la raccontavano i babilonesi, la prima versione scritta è dei sumeri. Secondo alcuni è una narrazione orale che viene dal 3000 avanti Cristo, forse dalla preistoria. Eppure sentiamo di essere contemporanei di Noè. Perché la sua è una storia che una volta sentita si imprime nella mente per sempre. Sopravvive da cinquemila anni, resistendo a ogni buonsenso – da un punto di vista realistico e geologico è impossibile che il diluvio sommerga tutta la terra – poiché ha la capacità di entrare in risonanza con la mente di persone, di epoche, di religioni – la Bibbia e il Corano – , di luoghi – dal Mediterraneo che irrompe nel Mar Nero, all’Ararat e alla Cina – molto diversi. Arrivando fino a oggi. Vedi Elon Musk, che si autodefinisce il nuovo Noè ma è chiaramente un Noè catastrofico".
Il Noè vecchio e “originale“ chi era?
"Intanto noi lo chiamiamo Noè per comodità, in realtà ha tantissimi nomi. La sua longevità – si imbarca sull’Arca a 600 anni, muore che di anni ne ha oltre 900 – potrebbe essere una metafora che permette di raccontare un tempo compresso, con secoli di storia che vengono condensati in una singola figura. Non è semplicemente un individuo, forse è una rappresentazione di una generazione o di molte generazioni, di una cultura o più culture che salvano qualcosa che deve essere salvato, la cosa essenziale. Può essere addirittura, mi piace pensare, un’idea antecedente a Homo sapiens".
Nel suo romanzo Noè ha ottimi rapporti con gli animali, un po’ meno con gli esseri umani.
"Noè coglie segni divini o naturali: messaggi, idee e insegnamenti che gli arrivano dal mondo animale con cui doveva avere una particolare intesa, e dalle cose secondo l’idea, di origine sumera, che le divinità parlano alle cose (una capanna, i giunchi) e le cose parlano a chi le sa ascoltare. Gli animali sono quasi angeli, messaggeri, ed è il legame profondo con il mondo animale ciò che permette a Noè di salvare la vita sulla Terra. Questa è una storia sovrannaturale, o meglio ultranaturale. Questi segni gli dicono che ci sarà un diluvio. È possibile una lettura ecologista: Noè è in grado di leggere gli avvertimenti della natura. Ma non solo. Noè accatasta legna nel niente, è bella questa insensatezza di un cantiere nel niente, lontano dal mare. Deriso e perso in un’attività improduttiva e asociale. In ciò sta la salvezza. Perché noi lo sappiamo che il diluvio arriva davvero, ma Noè e i suoi contemporanei no. E Noè è determinato a costruire un’arca. Ma nessuno sa cosa sia un’arca".
E cos’è l’arca? Nel suo romanzo è anch’essa ultranaturale: sembra viva...
"L’arca è un simbolo ricco di significati. Può essere proprio il pianeta intero, un microcosmo che riflette il mondo. Con le sue dinamiche sociali tra gli uomini: le liti, la noia, la riproduzione, il coraggio. Con quelle – che per me sono alla base del libro – tra gli uomini e gli animali: tutti i comportamenti umani sono nati dal rapporto con gli animali. Imitandoli, ricordandoli: ogni scoperta in fondo non è altro che un ricordo. In questa storia l’arca è un bosco galleggiante, un essere vivo e senziente. In ebraico, “arca” si dice “tevà”, che significa “cesto”, la stessa parola usata per il “cesto di Mosè”. Quindi è un contenitore che preserva, che garantisce la forma rispetto all’informe. Alcuni pensano che l’arca sia il linguaggio stesso".
Veniamo al diluvio.
"Come l’arca, come Noè, il diluvio può essere molte cose. Il risultato della fine dell’ultima grande glaciazione. Che sia uno e universale, o che siano molti sparsi per il mondo, è indubbio che la mente umana sia singolarmente predisposta a immaginarlo e immaginarli. La parola Mabul (diluvio in ebraico) e la parola Tufan (diluvio in arabo) vogliono dire crisi: perdita dei punti di riferimento, che porta all’ingiustizia. Secondo alcuni il diluvio è la somma dei comportamenti brutti, sbagliati, ma sotto la soglia della punibilità. Non c’è bisogno di essere tutti cattivoni: una premessa per il diluvio può anche stare nell’attribuire un valore spropositato alle proprie opinioni. Il diluvio è quel tipo di acqua che sale quando il livello dell’umanità scende".
E torniamo a Noè. Che nel suo romanzo, con il diluvio perde (o forse no?) il quarto figlio; e nel quale una volta sceso dall’arca s’inceppa un po’ la straordinaria capacità di comunicare con gli animali.
"Il quarto figlio, è importante specificarlo, viene dalla tradizione islamica, non è citato nella Bibbia. Secondo la Bibbia Noè è colui che inventa il vino, probabilmente il primo ubriaco della storia. Secondo la cultura sumera è Noè a fare il primo sogno della cultura occidentale, in cui ama un’ascia, o un meteorite, come una donna. Il Noè biblico è bisbetico, in tutta la Bibbia non fa mai un discorso diretto, l’unico suo discorso tra virgolette è quando si arrabbia con il figlio che lo prende in giro perché ubriaco. Io amo pensare che non sia un bacchettone, o un portatore di civiltà, ma sia solo un trasportatore, uno che come il poeta persiano Rumi dice: vieni, vieni chiunque tu sia. Un personaggio irresistibilmente problematico: fin dall’inizio non è convinto del diluvio; rispetto ad Abramo che cammina avanti a Dio, nel senso che non ha bisogno della sua tutela, Noè cammina con Dio, perché Dio lo deve tutelare. Ed è comprensibile che dopo aver visto l’apocalisse, si lasci andare, per così dire".
Come lei dice: l’Apocalisse nel Libro della Genesi. È questa l’arca di Noè.
"In epigrafe cito una frase di Borges: “si era, come sempre, alla fine del mondo“. Il fatto che la fine del mondo, nella Bibbia, sia stata messa nelle Genesi significa che la vita continua. La catastrofe climatica porterà a un’apocalisse? Può darsi. Magari non ci saranno più gli essere umani, anche se non credo. Però ci saranno dei germi, degli organismi che ricominciano. La natura ha tutto il tempo che vuole. E poi ci sarà un’altra civiltà. Dei tacchini, o delle patelle. Delle patelle, perché no?, patelle che forse ricorderanno qualcosa di noi".