Ecco come la Germania si spappola dopo i ceffoni di Vance

In Germania e non solo si dibatte delle ruvide parole di Vance sull’Europa. Le differenti reazioni di Scholz e Merz. L'approfondimento di Mennitti

Feb 17, 2025 - 09:24
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Ecco come la Germania si spappola dopo i ceffoni di Vance

In Germania e non solo si dibatte delle ruvide parole di Vance sull’Europa. Le differenti reazioni di Scholz e Merz. L’approfondimento di Mennitti

Quel che i leader europei lasciano trapelare appena spente le luci della Conferenza di Monaco è soprattutto costernazione. Come piccoli orfanelli abbandonati dal genitore (uno?), non trovano parole che non siano di circostanza per rispondere ai colpi con cui tale James David Vance, l’uomo emerso dall’America povera degli Appalachi per transitare attraverso una laurea a Yale tra i velluti della stanza ovale accanto a Donald Trump, ha bombardato una dopo l’altra le ultime loro certezze. In Germania, dove la conferenza ha avuto luogo e una confusa campagna elettorale promette di produrre un altrettanto confuso risultato, le parole del capo di Stato lettone Edgars Rinkevics, riprese dal notiziario di Ard, sintetizzano perfettamente lo stato d’animo: “Questo dobbiamo prima digerirlo”.

Così, anche la concitazione con cui il presidente francese Emmanuel Macron ha organizzato il vertice straordinario di Parigi per valutare il da farsi di fronte alla road map sull’Ucraina che gli Usa intendono percorrere senza gli europei, nel campo neutro di un paese arabo e in un rapporto diretto ed esclusivo con Mosca, appare come la corsa di un criceto spaesato nella ruota. Un po’ di vento, nulla di più. Per la cronaca, oggi lunedì 17 febbraio si radunano attorno al tavolo rappresentanti di Francia, Gran Bretagna, Olanda, Germania, Polonia, Italia, Spagna e Danimarca. La Danimarca rappresenterà i Paesi baltici e scandinavi.

Come nessuno in questo vecchio e satollo continente aveva compreso il portato delle rivendicazioni imperiali che Vladimir Putin squadernò proprio alla Conferenza di Monaco del 2007, anche questa volta si è sperato che la rutilante tempesta minacciata da Trump potesse essere contenuta, arginata, infine aggirata. Magari con un po’ di spesa militare in più e qualche concessione ai commerci sull’energia, ora che dalla Russia è proibito acquistarla. Eppure anche questa volta i segnali erano chiari, enfatizzati se ce ne fosse stato bisogno da quella frase che il neo rieletto presidente americano aveva pronunciato solo qualche settimana fa: gli europei dovranno capire che l’ordine fondato nel 1945 è finito. Ottant’anni sono passati da quel maggio 1945, da qui a tre mesi il mondo celebrerà la fine della seconda guerra mondiale. Ma quel che si è messo in moto ormai da un decennio è proprio la fine degli equilibri nati sulle macerie fumanti di Berlino.

Guardando in casa tedesca, è proprio Friedrich Merz, il più filo-americano fra i candidati alla cancelleria (ha nel curriculum Blackrock e l’Atlantik-Brücke, fondazione che promuove l’amicizia fra Washington e Berlino) ad aver percepito a cosa può portare il discorso di Vance: alla rottura delle relazioni transatlantiche.

Mentre Olaf Scholz, che oggi è volato a Parigi in quanto cancelliere in carica, si è limitato a riflessioni abbastanza scontate contro l’ingerenza Usa nelle elezioni americane e il dialogo con AfD, beccandosi il titolo sarcastico di un settimanale amico come Die Zeit (Le forti parole di un impotente), Merz nella sua newsletter settimanale ha osservato: “Le differenze tra gli Stati Uniti e l’Europa stanno assumendo una qualità completamente nuova. Ora non si tratta più solo di difesa; ora si tratta della nostra comprensione fondamentale della democrazia e della società aperta, ora si tratta dell’indipendenza della giustizia, della separazione dei poteri e del nostro precedente consenso di base sulle minacce reali alla nostra libertà”.

Zeitenwende, svolta epocale, era il concetto attorno al quale il governo tedesco uscente, e Olaf Scholz in primo luogo, aveva abbozzato la nuova strategia di politica estera e di sicurezza della Germania all’indomani dell’attacco russo all’Ucraina. Ora si comincia a comprendere che quella svolta epocale abbraccia molto di più di quel che si immaginava tre anni fa. E impallidisce la timida risposta che la Germania, e con essa gran parte dell’Europa, ha dato finora a questa rottura, a cominciare da quella economica sulla difesa: grandi promesse, grandi e fantasiosi budget a disposizione, poche azioni conseguenti, magari nella speranza che prima o poi le cose tornassero al quieto vivere di prima. La Germania, e con essa l’Europa, è diventata sempre più un vaso di coccio tra vasi di ferro, nel migliore dei casi un bancomat per una guerra della quale non ha controllo (né vuole averlo) e per la quale non ha strategia, neppure per una sua fine.

Berlino è il perno geografico del continente e di quella Unione europea che oggi dà forma alle nostre politiche comuni. Ma è una potenza egemone controvoglia, specie quando si passa dalla dominanza dei temi economici a quelli politici. Oggi, che è in crisi anche economica, la sua debolezza si proietta su tutto il continente, piaccia o meno. Il vuoto nel cuore d’Europa è il vuoto dell’Europa. E fino al 23 febbraio, data del voto anticipato a Berlino, tutto è destinato a rimanere sospeso, nonostante le dichiarazioni più o meno altisonanti – e chissà quanto dissonanti – che usciranno dal vertice parigino. Ma c’è il rischio che tale sospensione duri a lungo anche dopo il voto tedesco, che promette di sfornare un risultato frammentato, obbligando a un nuovo governo di compromesso tra forze che per idee e programmi sarebbero alternative. E questo a prescindere dal cambio di cancelliere.