Draghi va alla guerra sulla difesa Ue, ma come?
Considerazioni e interrogativi dopo il discorso di Draghi al Parlamento europeo sulla difesa Ue e non solo. Il commento di Sergio Giraldo tratto dalla newsletter Out.

Considerazioni e interrogativi dopo il discorso di Draghi al Parlamento europeo sulla difesa Ue e non solo. Il commento di Sergio Giraldo tratto dalla newsletter Out
Donald Trump continua a scuotere l’albero e i frutti maturi stanno cadendo. Guardiamo cosa sta accadendo nell’Unione europea sul tema della difesa. I buffetti agli europei sulla libertà di espressione (JD Vance) e sulla partecipazione alle trattative di pace in Ucraina (Keith Kellogg) hanno scioccato le capitali europee (tranne alcune un po’ più consapevoli, diciamo).
I ministri degli esteri di Russia e Stati Uniti si sono parlati a Riad e ne è venuta fuori una specie di autostrada per la normalizzazione dei rapporti diplomatici tra i due paesi. Vedremo quanto tempo ci vorrà per percorrerla, ma il segnale è forte ed ha scosso, ancora una volta, i vertici europei, che non sanno più da che parte girarsi. Esclusi dai tavoli che contano, relegati al tavolo dei bambini. Domani altro vertice a Parigi, convocato da Macron per far vedere che sta facendo qualcosa.
Intanto Mario Draghi continua la sua tournée per cercare di convincere che occorre fare qualcosa. L’ha proprio detto:
Da Whatever it takes a Do something, interessante parabola.
Vi sarebbe molto da dire sulle affermazioni di Draghi a contorno (ad esempio, chi dice di no all’unione dei capitali, al mercato unico, al debito comune? Non sarebbe ora di dirlo chiaramente?) ma lo faremo in altra occasione.
Andiamo all’argomento di questo pezzo, la spesa per la difesa europea.
La presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha sparigliato le carte venerdì scorso dicendo che sul tema della sicurezza europea avrebbe attivato la “clausola di salvaguardia” nel quadro di bilancio Ue per consentire agli Stati membri di “aumentare sostanzialmente” la spesa per la difesa. La cosa è un po’ una sorpresa, perché non pare che al di fuori della Commissione se ne sia parlato ed anche i tedeschi sono rimasti un po’ spiazzati. La Francia comunque si è già portata avanti lo scorso anno, avendo approvato in autunno la legge di programmazione militare che prevede 413 miliardi di spesa in 6 anni.
Sia come sia, da qualche settimana circolano ipotesi fantasiose su chi e come dovrebbe finanziare questo preteso riarmo europeo, nonché per fare che cosa esattamente. Si parla di un utilizzo del MES, che a quanto pare è un frutto buono in ogni stagione anche se nessuno lo vuole mangiare. Poi si sente parlare di un coinvolgimento della BEI (che starebbe per finanziare delle caserme come operazione immobiliare), mentre si attende per il 19 marzo il Libro bianco dell’Ue sulla difesa.
In questo Helzapoppin, un rapporto di S&P ci aiuta a capire cosa significa davvero (dal punto di vista economico) armare l’Europa. Dopo avere stabilito che sì, in teoria il MES e lo European Financial Stability Facility hanno capacità di spesa e inizialmente potrebbero anche dare un contributo, S&P dice due cose molto importanti.
La prima è questa:
La spesa per la difesa non è un aggiustamento una tantum, è un impegno finanziario continuo che peserà soprattutto sulle economie europee più grandi e più indebitate. Dato il significativo fabbisogno di finanziamenti annuali per aggiornare gli impegni di difesa, qualsiasi aumento della spesa per la difesa sarà probabilmente graduale e tramite una combinazione di maggiori prestiti sia a livello nazionale che sovranazionale. Per garantire la sostenibilità di una maggiore spesa per la difesa, questo debito dovrebbe essere sostenuto da nuove fonti di entrate, tagli alla spesa compensativi o ulteriori trasferimenti di capitale alle istituzioni sovranazionali dell’UE. Mentre l’Europa ha opzioni per dimostrare il suo rinnovato impegno politico, la prova del nove sarà se riuscirà a stabilire un quadro finanziario duraturo per supportare le sue ambizioni di difesa anno dopo anno.
Chiaro? Detto in altri termini: data la sua natura a lungo termine, la spesa per la difesa richiede risorse aggiuntive e costringe gli Stati membri a trovare risparmi di bilancio compensativi in un’epoca di crescita debole e frammentazione politica. Non si tratta solo di fare un investimento iniziale, ma di sostenere nel tempo la spesa. Con i vincoli sul debito l’operazione si tramuta in una nuova austerità. La debolezza di molti governi, di Francia e Germania in particolare, mette a rischio anche la fattibilità politica di un programma di riarmo.
La seconda cosa che dice S&P è che l’aumento della spesa militare non è in grado di stimolare la crescita economica:
Il moltiplicatore fiscale della spesa per la difesa nell’UE rimane modesto, spesso inferiore a 0,4-0,5x in alcuni dei paesi più grandi, producendo uno stimolo economico limitato. Questo perché la spesa per la difesa dell’Europa è ad alta intensità di importazioni e solo un terzo è dedicato agli investimenti. L’industria della difesa frammentata della regione impiega meno dello 0,3% della forza lavoro europea e gli appalti della difesa nazionale favoriscono i campioni nazionali piuttosto che cercare economie di scala ed efficienza.
Chiaro? Anche se spendiamo tanto, questo genera poca crescita, perché importiamo i due terzi del fabbisogno e non abbiamo una industria integrata nel campo della difesa.
Per cui, prima di iniziare a spendere (prima di “fare qualcosa”) bisognerebbe ragionare su cosa si vuole fare. Comprare dagli americani o sviluppare filiere? La priorità a questo punto diventa evitare di trasformare anche questo in un nuovo disastro come il Green Deal, condito da austerità e dai soliti “Fate presto!”
Non stiamo discutendo qui se l’aumento delle spese militari sia giusto o sbagliato, se sia da fare oppure no: S&P ci aiuta a capire che l’Unione europea oggi non è nelle condizioni di affrontare un serio programma di sviluppo della difesa.