Diritti negati nella filiera del caffè

La filiera del caffè è una catena lunga e complessa: spesso lungo le sue maglie si nascondono gravi violazioni dei diritti umani L'articolo Diritti negati nella filiera del caffè proviene da Valori.

Mag 12, 2025 - 06:54
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Diritti negati nella filiera del caffè

Sembra solo una tazzina di caffè. Ma dentro ci sono storie di foreste che spariscono, temperature che salgono e persone che lavorano senza tutele. Questo articolo fa parte di un mini-dossier che prova a guardare oltre l’aroma: per capire davvero cosa beviamo ogni mattina — e perché dovremmo farci qualche domanda in più.

Gli articoli del dossier:


Diritti negati nella filiera del caffè

La filiera del caffè ha notevoli limiti dal punto di vista ambientale e da quello dei diritti umani. La produzione della bevanda infatti è spesso connessa a numerose e documentate violazioni. La catena che unisce la nascita di una drupa – il piccolo frutto simili alle ciliegie che contiene le due perle che diventeranno i chicchi di caffè – e la tazzina che ogni mattina svuotiamo e ci restituisce lucidità è lunga e molto intricata. Attraversa larga parte del Pianeta e conta molti, molti anelli.

Ci sono le persone che coltivano; quelle che trasformano; quelle che esportano il prodotto e quelle che invece lo importano nel proprio Paese; ci sono quelle che lo lavorano nelle torrefazioni; quelle che lo vendono; quelle che lo acquistano. 

Coltivatori e braccianti: l’anello più fragile della filiera del caffè

Partiamo dal primo anello: contadine e contadini. Quasi sempre si tratta di piccole realtà: il 95% delle piantagioni ha un’estensione inferiore a 5 ettari. Tre quarti del caffè diffuso al mondo è prodotto da una piccola azienda agricola dove i diritti umani sono subordinati alla sopravvivenza economica. Le condizioni di lavoro sono estremamente precarie. Le stime raccontano di almeno 5 milioni e mezzo di persone in stato di povertà.

Stagionali, informali, pagate a giornata, con guadagni che arrivano a poco più di tre dollari al giorno. Sono letteralmente il punto di inizio della catena, ma ne rappresentano l’anello più debole. Raramente il loro lavoro rende queste lavoratrici e lavoratori in grado di coprire i costi della produzione di base. Spesso si indebitano e raramente riescono a ripagare il loro debito. Il calo dei prezzi del triennio 2016-2019 è stato un duro colpo per la categoria. Più di recente invece si è scontrata con l’aumento dei costi di produzione e con gli effetti della crisi climatica.

Il valore più basso del caffè, infatti, è proprio nella fase di coltivazione, ed è la ragione per cui è in questa fase che i diritti umani vengono violati. Viceversa quello più alto è nella commercializzazione, che avviene nei Paesi sviluppati. Nonostante questo, la raccolta rappresenta fino al 70% dei costi totali di produzione. In 17 Paesi al mondo è ancora effettuata anche da bambine e bambini. Da questo punto di vista, la situazione è molto peggiorata dopo la pandemia. 

Speculazione, crisi e clima: chi paga davvero il prezzo del caffè

Chi fa piccola imprenditoria agricola è esposto a numerosi rischi. Da un lato il rischio climatico, che si fa sempre più pressante. Ma ci sono anche le fluttuazioni dei prezzi dovute alle questioni geopolitiche, agli shock economici, alle speculazioni o alle epidemie, come accaduto durante la pandemia. Imprese esportatrici e importatrici si trovano a metà strada tra chi coltiva e le torrefazioni. In questa terra di mezzo ha luogo la gran parte della speculazione e il prezzo si distorce.

Nelle torrefazioni avviene la trasformazione. Il caffè smette di essere una pianta e si avvicina di più ai chicchi e poi alla polvere cui siamo abituati. Il mercato è dominato da grandi impianti industriali. Secondo i dati Faitrade, nel 2019 più di un terzo del caffè globale è stato lavorato dai primi 10 torrefattori al mondo. Grazie alle loro dimensioni, queste imprese puntano su economie di scala e garantiscono prezzi competitivi. Dando invece meno attenzione alla qualità del prodotto o all’origine della materia prima.

L’anello successivo della catena è rappresentato dai canali di distribuzione. Anche in questo caso le reti sono dominate da grandi marchi che portano il caffè nei luoghi di vendita. Nel 2019 solo cinque grandi commercianti controllavano il 50% del caffè globale. In fondo alla filiera c’è l’acquirente, le cui scelte sono influenzate da fattori come la provenienza geografica, le abitudini culturali e la disponibilità economica. Anche se arriva per ultimo, chi consuma caffè può influenzare l’intero processo produttivo e contribuire alla tutela dei diritti umani di chi sta all’origine. Basta farlo attraverso scelte d’acquisto consapevoli.

Il caso Starbucks e le violazioni dei diritti umani documentate

Al di là delle questioni sistemiche legate ai limiti della filiera del caffè, esistono diversi casi emblematici di violazioni dei diritti umani. Un tra tutti ha visto coinvolto il colosso Starbucks, da sempre attento a certificare l’eticità dei propri approvvigionamenti. Il commercio equo e solidale di caffè, negli anni, è infatti diventato un punto importante dell’identità commerciale del brand. Fino al 10 gennaio 2024, quando la National Consumers League (NCL) ha denunciato Starbucks per violazione dei diritti umani riportando una serie di casi documentati di lavoro minorile, tratta di esseri umani, lavori forzati e numerose altre violazioni nelle aziende da cui il marchio si rifornisce di caffè e tè. Starbucks ha respinto tutte le accuse e annunciato l’intenzione di difendersi in tribunale.

Le informazioni riportate da NCL, però, sono piuttosto precise. L’associazione di consumatori, infatti, denuncia che il maggior fornitore brasiliano di Starbucks sarebbe implicato nel traffico illegale di lavoratrici e lavoratori migranti, che quelli in Guatemala sfrutterebbero minori e che la piantagione da cui il colosso si rifornisce di tè, in Kenya, sarebbe stata teatro di «abusi sessuali ripetuti». 

Consumo responsabile: non serve rinunciare, basta scegliere meglio

Quanto elencato fino a ora non ha lo scopo di colpevolizzare chi consuma caffè. Le numerose e documentate violazioni dei diritti umani lungo la filiera sono responsabilità dei grandi marchi che le compiono, che non le prevengono o che non vi pongono rimedio. Chi consuma può, al limite, prestare attenzione al prodotto che sceglie e alla filiera da cui proviene, subordinando a questi criteri la necessità di trovare prezzi a buon mercato. Spesso dietro il risparmio di pochi centesimi, infatti, si nascondono sfruttamento e violazioni. 

A questo scopo abbiamo cercato un elenco – certamente non esaustivo – di marchi etici, rispettosi di persone e ambiente. Nel 2023 in tutto il mondo sono state prodotte 578mila tonnellate di caffè da 592 organizzazioni Fairtrade. Più della metà (il 53%) anche in versione bio. Le certificazioni Fairtrade assicurano a consumatori e consumatrici una serie di fattori. Un prezzo minimo, innanzitutto, che garantisce alle cooperative aderenti stabilità in un mercato molto volatile, rendendole in grado di investire, pianificare e migliorare la propria produzione. Inoltre, a ogni impresa viene riconosciuto, oltre al prezzo di vendita, un premio aggiuntivo (più elevato nel caso di produzioni biologiche), che può essere reinvestito nell’attività aziendale o in iniziative a beneficio della comunità. Sempre più spesso viene speso per trovare strategie di adattamento ai cambiamenti climatici, magari acquistando varietà di semi più resistenti.

Anche Altromercato propone caffè proveniente da filiere etiche. Si tratta di prodotti realizzati con una relazione diretta tra i vari attori della catena, basata sulla continuità e sulla trasparenza del rapporto commerciale. Il caffè è proposto, anche in questo caso, a un prezzo minimo, ha un basso e documentato impatto ambientale e, in un’alta percentuale dei casi, è biologico. 

Piccole storie, grandi caffè

Ci sono però anche marchi più piccoli, provenienti da storie che val la pena supportare. Come il caffè prodotto dalla Cooperativa La Liberataria, nata a Lecco nel 2020. La particolarità di questa produzione è che si basa sull’autogestione. Non ci sono gerarchie, solo solidarietà e mutualismo. Il caffè viene prodotto da piccole realtà contadine e distribuito in tutta Italia.

O come il caffè Lazzarelle, prodotto da settanta donne detenute nel carcere femminile di Pozzuoli, in provincia di Napoli. La cooperativa promuove l’inclusione sociale e vuole restituire autonomia e dignità attraverso il lavoro. Le donne impiegate nel progetto lavorano il caffè prodotto da piccole attività nel Sud del mondo: i chicchi provengono dai progetti della cooperativa Shadhilly, che sostiene i piccoli produttori. Attiva dal 2010, l’organizzazione non riceve finanziamenti pubblici e si regge esclusivamente sul lavoro delle donne che la animano. Nel 2019, queste ultime sono state riconosciute come Ambasciatrici dell’Economia Civile (realtà più votata) nell’ambito del Festival Nazionale dell’Economia Civile.

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