Dai big di Wall Street l’allarme recessione «Effetto domino non di breve periodo»
Wall Street alza la pressione su Donald Trump. Dopo tre giorni di tempesta sui mercati mondiali, ieri diversi esponenti dell’alta finanza statunitense hanno sottolineato pubblicamente i rischi dell’offensiva commerciale della Casa Bianca. Critiche misurate, certo; che, però, rappresentano un segnale importante del malessere dei money maker americani, abituati a muoversi nel mondo — senza barriere né confini […] L'articolo Dai big di Wall Street l’allarme recessione «Effetto domino non di breve periodo» proviene da Iusletter.

Wall Street alza la pressione su Donald Trump. Dopo tre giorni di tempesta sui mercati mondiali, ieri diversi esponenti dell’alta finanza statunitense hanno sottolineato pubblicamente i rischi dell’offensiva commerciale della Casa Bianca. Critiche misurate, certo; che, però, rappresentano un segnale importante del malessere dei money maker americani, abituati a muoversi nel mondo — senza barriere né confini — degli affari.
Il primo a biasimare la sventagliata doganale di Trump è stato Bill Ackman, numero uno del fondo speculativo Pershing Square e grande sostenitore del presidente repubblicano. «Se il 9 aprile dovessimo lanciare una guerra economica nucleare contro tutti i Paesi, gli investimenti aziendali si fermeranno, i consumatori chiuderanno i portafogli e danneggeremo gravemente la nostra reputazione con il resto del mondo, che richiederà anni, forse decenni, per essere riabilitata». Allarme via X a cui ha fatto eco la lettera agli azionisti di Jamie Dimon, amministratore delegato di JpMorgan, la prima banca americana. I dazi «causeranno probabilmente un aumento dell’inflazione e stanno portando molti a considerare più probabile una recessione — ha rimarcato Dimon — Spero che, all’esito dei negoziati, ci saranno alcuni effetti a lungo termine positivi per gli Stati Uniti». Più esplicito era stato circa un mese fa il responsabile globale delle strategie della stessa JpMorgan, David Kelly. «Il problema con i dazi, in sintesi — ha scritto Kelly a marzo, all’epoca del primo aumento delle ta riffe su Messico e Canada — è che fanno salire i prezzi, rallentano la crescita economica, riducono i profitti, aumentano la disoccupazione, ampliano la diseguaglianza, diminuiscono la produttività e alimentano le tensioni globali. A parte questo, vanno bene».
Nel pomeriggio è arrivato anche l’avvertimento di Larry Fink, capo di BlackRock, il più grande gestore di fondi al mondo, custode di 10 mila miliardi di risparmi. «La maggior parte dei ceo con cui parlo direbbe che siamo probabilmente già in recessione in questo momento», ha rimarcato. «Un crollo del 20% del mercato in tre giorni è ovviamente significativo e l’effetto domino dei dazi non sarà di breve periodo», ha aggiunto.
Trump, per il momento, non sembra preoccuparsene. «Non siate Panican (un nuovo partito formato da persone deboli e stupide!», ha scritto su Truth). Sempre sul suo social il magnate è tornato ad attaccare la Federal Reserve e il suo presidente Jerome Powell, che, nominato da Trump nel 2017, è diventato nel tempo la sua nemesi finanziaria. «La Fed si muove lentamente, dovrebbe tagliare i tassi!». Per il momento, però, la banca centrale americana non sembra intenzionata ad assecondare i desideri della Casa Bianca. Powell ha deciso di prendere tempo per valutare l’impatto dei dazi sull’economia. Da un lato, infatti, l’aumento delle tasse sulle importazioni potrebbe causare una recessione e, quindi, spingere la Fed ad accelerare il taglio del costo del denaro per stimolare l’economia. Dall’altro, però, le barriere commerciali rischiano di far salire l’inflazione Usa dell’1-1,5%, sconsigliando quindi una riduzione dei tassi. Qualcuno inizia a temere che i due fenomeni — recessione e inflazione — possano presentarsi insieme. Gli Stati Uniti entrerebbero allora in stagflazione, il vero «cigno nero» per le banche centrali e dei mercati finanziari. Allora al neonato partito dei «Panican» potrebbero iscriversi in molti.
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