Dagospia o Dagoslurp?
C'era una volta il Dagospia irriverente, sfruculioso e anti markette, ma oramai il nuovo corso zuccheroso dell'editoria contagia anche la testata più scapestrata del Web che, a parte le ossessioni anti Meloni, sforna sorprendenti articoli su talune aziende. La lettera di Claudio Trezzano

C’era una volta il Dagospia irriverente, sfruculioso e anti markette, ma oramai il nuovo corso zuccheroso dell’editoria contagia anche la testata più scapestrata del Web che, a parte le ossessioni anti Meloni, sforna sorprendenti articoli su talune aziende. La lettera di Claudio Trezzano
Caro direttore,
gli anni passano per tutti, è vero. Ma non tutti invecchiano allo stesso modo. C’è chi ingrigisce subito, chi mette su un po’ di panzetta, chi come il sottoscritto si riempie di rughe.
Banalità e ovvietà, dirai. Certo, ma ci avevi fatto caso che pure Dagospia – che a giudicare da ciò che scrivi sui social, monitori molto bene – sta invecchiando maluccio?
Dov’è finito per esempio quel monellaccio di Dago, versione Internet del Pasquino romano con un tocco, vista l’abbondanza di contenuti maliziosetti, del Pierino cinematografico degli anni ’70?
Dov’è finita la testata che non risparmiava nessuno, che menava scappellotti a destra e a manca, la cui firma distintiva era – perdona l’espressione – pisciare fuori dal vaso ovunque e con chiunque?
Passi il recente riposizionamento politico: alla fine le testate, tu mi insegni, sono un simulacro del direttore (quando non sono direttamente appendice dell’editore…) e in quanto tali assoggettate ai capricci di chi le guida. E sia.
Ma ti leggo questo incipit e tu dimmi cosa ha a che fare con l’irriverente Dagospia di un tempo: “Da una parte c’è l’Italia di Sanremo, e per fortuna. E dall’altra c’è un’Italia più veloce, con altri interessi e altre idee. Un microcosmo giovane che si organizza da solo, sceglie i film da vedere in autonomia, condivide storie, post e reel. E decide anche che cosa leggere (c’è una caccia serratissima al booktoker, fateci caso; gli inserti se li contendono)”.
E, ancora: “Di Dario Moccia, Davide Masella e Luca “Mangaka96” Molinaro (rispettivamente 34, 34, e 29 anni) – tre content creator che si muovono tra Youtube e Twitch – non ha parlato quasi nessuno (a parte, chiaramente, i soliti noti: c’è un’agenzia di AdnKronos, un pezzo de Il Libraio e qualche verticale di fumetto come Fumettologica).” Insomma, non è nemmeno così vero che non ne abbia parlato nessuno, ma poi anche se fosse, perché deve occuparsene Dago?
La risposta, ahinoi, arriva subito dopo: “Eppure hanno aperto dal nulla, con le loro sole forze, una casa editrice: la Tomodachi Press. Ma come, in un paese come l’Italia, dove oramai non legge più nessuno? Durante la pandemia, Luca Molinaro e il suo socio Matteo Porri hanno fondato MangaYo, uno shop online specializzato in manga e in pubblicazioni che vengono dal Giappone. Hanno fatto quello che gli altri editori non riuscivano (o non volevano?) fare: hanno intercettato il pubblico “forte”, quello cioè che compra, che spende soldi, che è fedele, hanno creato uno spazio in cui poter trovare ogni tipo di titolo, si sono circondati di content creator e influencer, che puntualmente, quasi ogni giorno, ricordano ai loro follower e spettatori dell’esistenza di MangaYo; e hanno adottato una comunicazione minimale”.
Risultato? “Oggi MangaYo è un colosso, il sito più trafficato e consultato da chi vuole leggere manga in Italia” (e meno male che non ne aveva parlato nessuno, visto che a quanto pare lo conoscevano già tutti). “Ed è importante partire da qui per parlare di Tomodachi Press. Perché con Molinaro, che ha contatti nazionali e internazionali, che conosce autori e distributori, Moccia e Masella hanno potuto costruire una casa editrice dinamica, attenta alle proprie iniziative, già con un occhio all’estero e pronta tanto a investire quanto a rischiare”.
Il giornalista non sta più nella pelle dall’entusiasmo. Personalmente lo trovo semplicemente fuori posto. E urticante. Soprattutto non è materiale da Dagospia. E sul finale peggiora pure con l’articolo che, per usare un termine americano, diventa persino una call to action: “Andate su Instagram, cercateli: hanno annunciato una serie di ospiti internazionali, tra nomi più o meno grossi dell’industria del videogioco e del cinema (c’è pure il Ron Perlman di Hellboy e Sons of Anarchy), che difficilmente si possono trovare altrove. E sono alla loro prima edizione, al loro primo giro di valzer. E quindi qual è il segreto? Sono i più bravi? Sono fuoriclasse? Il talento chiama talento, e chi dice di no. Ma c’è un’Italia che teme il cambiamento, che non lo vuole, che lo osteggia (il più delle volte, non sempre: mettiamo le mani avanti). E che vede l’altra Italia, quella che va più veloce, che comunica con i meme, i reel e i post, solo come una platea da coinvolgere e guai ad ascoltarla”.
Poi ci si ricorda di essere su Dagospia, e allora ecco lo sfottò gratuito alle testate rivali: “Avete visto su qualcuna delle grandi testate nazionali (a parte, e lo ripetiamo, poche eccezioni) il nome della Tomodachi Press o quello del Florence Games Festival? Avete per caso saputo che lo scorso dicembre, in poco più di due settimane, Moccia e i suoi hanno raccolto qualcosa come 370mila euro per Telethon? No? Non sorprendetevi. Non è niente. È solo l’altra Italia. Benvenuti.”
Ma è uno sfottò fuori posto, proprio come l’entusiasmo che pervade l’intero articolo.
Verrebbe quasi da rispondere che di articoli inutilmente entusiastici altrove se ne leggono già fin troppi, che uno si tuffa su Dagospia proprio nella speranza di non trovarli anche lì. Invece oramai andandoci si finisce per incappare in un pezzo che si vanta di farli, quando le altre testate evitano.
A parte le fissazioni anti Meloni (che condivido perché i giornali non possono essere governativi a prescindere ma che stanno diventando ripetitive, dunque ossessive), su aziende e dintorni mi viene da dire: aridatece il vecchio Dagospia!
Salutoni e a presto, caro direttore
Claudio Trezzano