Cosa abbiamo capito (e cosa no) della dottrina Trump

Cosa lega le dichiarazioni di Trump sulla Groenlandia, su Gaza, sull'Ucraina e non solo. Conversazione con Gabriele Natalizia, professore di Relazioni internazionali alla Sapienza. Estratto da Appunti di Stefano Feltri.

Feb 15, 2025 - 08:10
 0
Cosa abbiamo capito (e cosa no) della dottrina Trump

Cosa lega le dichiarazioni di Trump sulla Groenlandia, su Gaza, sull’Ucraina e non solo. Conversazione con Gabriele Natalizia, professore di Relazioni internazionali alla Sapienza. Estratto da Appunti di Stefano Feltri

Gabriele Natalizia è professore di Relazioni internazionali alla Sapienza e direttore del centro studi Geopolitica.info. Dall’annessione della Groenlandia al Golfo del Messico che diventa Golfo d’America, al resort a Gaza fino all’Ucraina: cosa abbiamo capito fin qui della “dottrina Trump”? C’è qualcosa di coerente o sono esternazioni tra loro scollegate?

Al momento non credo sia possibile parlare di una dottrina Trump, d’altronde siamo di fronte ai primissimi passi della nuova amministrazione in campo internazionale, che non sono stati ancora codificati né in maniera sistematica né all’interno di un discorso sulla politica estera americana né all’interno di un documento sulla sicurezza nazionale.

È possibile tuttavia rinvenire alcune indicazioni interessanti per quanto riguarda le direttrici su cui si muoverà l’amministrazione Trump nel prossimo quadriennio e anzitutto sembra chiaro che l’amministrazione Trump voglia conseguire l’obiettivo di mettere al sicuro l’emisfero occidentale da influenze malevole esterne, in particolare quelle di Cina e Russia.

Credo che in questa chiave vada letta l’ipotesi di dazi contro il Messico, la ridenominazione del Golfo del Messico in Golfo d’America per ottenere un riallineamento forte del governo messicano, anche per quanto riguarda i temi delle importazioni di fentanyl e dell’immigrazione clandestina.

Allo stesso modo, sempre in funzione di contenimento della Cina, in particolare della sua proiezione nell’emisfero occidentale, va letta l’ipotesi ventilata di un ritorno del canale di Panama sotto il controllo americano.

Infine, invece, per quanto riguarda il contenimento nei confronti della federazione russa, credo che la questione della Groenlandia vada letta in questa chiave, ovvero la Groenlandia costituisce una sorta di portaerei da cui controllare l’accesso nord verso l’Atlantico, che soprattutto in caso di guerra sarebbe centrale per la sicurezza degli Stati Uniti, ma anche per la possibilità di una proiezione americana verso l’Europa nel caso di un attacco russo sul nostro continente.

Dalla prospettiva dell’Unione europea, qual è l’esito auspicabile – o almeno il meno deprecabile – di una possibile tregua intorno all’Ucraina?

Credo che ormai non si possa purtroppo più riflettere sull’esito migliore in senso assoluto, che sarebbe stato ovviamente quello del completo respingimento delle forze militari della federazione russa, quantomeno sulle posizioni pre-24 febbraio 2022.

Al contrario dobbiamo riflettere sull’esito meno peggiore, per due ragioni. Anzitutto perché le forze russe occupano 120 mila chilometri quadrati di territorio ucraino oltre la Crimea.

D’altro canto gli Stati Uniti con l’amministrazione Trump – ma c’erano già avvisaglie con Biden – si sono decisi a chiudere la partita per concentrare quante più risorse possibile sulla loro priorità strategica, la sfida con la Repubblica Cinese nell’Indo-Pacifico.

E l’Ucraina non riesce a combattere senza un sostegno deciso da parte statunitense, visto che quello europeo non è sufficiente.

Qual è la notizia buona per l’Unione europea? Che comunque l’Ucraina, anche se costretta a qualche dolorosa concessione territoriale, resterà indipendente. Probabilmente non entrerà nella Nato o nell’Unione europea, ma resterà agganciata al sistema di alleanze occidentale.

Il ministro della Difesa italiano Guido Crosetto ha anticipato che a giugno la Nato chiederà ai Paesi membri di aumentare il proprio impegno dal 2 al 3 per cento del Pil in spese militari. E’ realistico che i Paesi membri spendano tanto di più se poi a comandare sulla Nato è il partner più instabile, cioè gli Stati Uniti trumpiani?

Durante la campagna elettorale, Donald Trump ha promesso più volte di tornare ad adottare la tattica della maximum pressure nei rapporti internazionali.

Gli osservatori pensavano che lo avrebbe fatto anzitutto con gli sfidanti degli Stati Uniti. Se questo è stato vero con la Repubblica Popolare Cinese, già sottoposta nuovamente a dazi, non è stato altrettanto vero per la Federazione Russa e la Repubblica Islamica dell’Iran.

Al contrario, la maximum pressure sembra essere stata adottata nei confronti di partner e alleati degli Stati Uniti. Perché?

Probabilmente per estrarre da loro il massimo del contributo possibile per alleviare costi e responsabilità degli Stati Uniti nella difesa dello status quo, scaturito alla fine della Guerra Fredda che, dalla prospettiva di Washington, favorisce anche alleati e partner degli Stati Uniti stessi.

La richiesta fatta circolare in ambito Nato di un 5 per cento del Pil da investire in futuro nel budget militare sembrerebbe più una leva negoziale per ottenere una promessa dagli alleati di alzare la soglia della spesa da raggiungere al 3 per cento nei prossimi dieci anni.

Questo manterrebbe la Nato ferma su una posizione transregionale, di contrasto alla minaccia della Federazione Russa da un lato e dell’instabilità del Mediterraneo dall’altro.

Se invece l’obiettivo fosse realmente quello del 5 per cento, vorrebbe dire che l’amministrazione Trump ha in mente un’altra Nato, con proiezione globale e strumento concreto per contrastare l’ascesa della Repubblica Popolare Cinese.