Come il sangue, il comunismo di Bologna non è acqua

L'intervento di Salvatore Sechi, storico e professore di Storia contemporanea all'Università di Ferrara.

Mar 8, 2025 - 08:13
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Come il sangue, il comunismo di Bologna non è acqua

L’intervento di Salvatore Sechi, storico e professore di Storia contemporanea all’Università di Ferrara

A volte le città muoiono non per la rovina dei templi. Possono scomparire anche sotto l’incalzare di un prolasso definitorio di natura sfingetica. Assai balordo e totalmente inventato. È il caso di Bologna.

Un’ossessione predicatoria da settimane si leva dalle guglie di Palazzo d’Accursio. Ha la pretesa farsesca di rubricare la storia più recente della città addirittura in un’era o un evo assunto come simbolo. Gli si è affibbiato il nome di “città del tram gratis”. Invece, di “città della manina corta” (in rapporto al debito fiscale) o di “Janos Palach eroe negativo” , come vorrei proporre.

Con la valorizzazione a livello di simbolo della città del biglietto del trasporto pubblico, il sindaco in carica Matteo Lepore è a malpartito. Ha ridicolizzato i cittadini del capoluogo emiliano. Meriterebbero un diverso trattamento avendo vissuto storicamente cicli di grande allineamento e di opposizione ai poteri dominanti.

Prima come città del Cardinal Legato (cioè papalina al massimo rango) ha espresso tutte le varietà del cattolicesimo. Poi quella del fascismo e alla fine quelle del comunismo.

A quest’ultima si ispira l’attuale giunta di sinistra. Rappresenta, al di là della segmentazione elettorale, un coacervo di grandi e piccoli interessi, pubblici e privati, di imprese e cooperative.

Ma gli affari sono come il sangue. Come dice un proverbio sardo, il sangue non è acqua. Dopo circa settanta anni si sono ormai consolidati in un sistema di potere. Non sempre trasparente né facilmente decifrabile. Tantomeno sostituibile.

Il vessillo rosso che li copre è un sudario non agevole da raccontare.

Ciò che si può, e si dovrebbe dire, è che il comunismo bonaccione e lezioso, suadente ed eccentrico rispetto ad ogni ortodossia è stato in realtà la maschera fittizia di una continuità dal volto marmoreo. Vuol dire intangibile. È stata incorporata come una seconda pelle nel regime (cioè il sistema di potere) declinato in Unione sovietica.

Per circa un secolo la fedeltà a Mosca non ha avuto, a parte la parentesi di Giorgio Guazzalocca, scompigli e slealtà. Uno dei picchi fu toccato da Renato Zangheri.

Quando l’Armata rossa fu inviata a Praga a sedare la domanda di libertà e di autonomia del popolo cecoslovacco, un giovane studente Janos Palach si diede la morte in p.za San Venceslao. Era la confessione spettacolare di una disperazione ormai estenuata. Per questo ragazzo non c’era altro modo di ribellarsi e farsi valere in un paese imbrigliato nel comunismo. E per di più occupato militarmente dai reparti di Mosca.

Il commento del sindaco Zangheri fu, invece, inedito, gelido e durissimo. Janos Palach venne liquidato come “un eroe negativo”. Quindi l’Armata rossa e il Pcus che avevano aggredito a mano armato Praga non erano censurabili. Lo era la loro vittima, il povero studente. Allucinante

Ricordo un altro episodio che ancor meno ebbe eco.

Mi riferisco al fatto che ancora negli anni Settanta per poter esercitare il diritto di esprimere un voto contrario i consiglieri eletti nella lista del Pci(o anche con nome diverso)dovevano chiedere l’autorizzazione allo stesso Zangheri o al capogruppo del partito. Dunque, non godevano di un diritto che nella prassi dei regimi liberal-democratici (esecrati dai comunisti come apparati reazionari) aveva un iter tranquillo, cioè scontato.

Non lo era nel mondo apparentemente gioioso del Pci. A dominare era la paura che i compagni potessero affezionarsi troppo all’uso di questo potere di dire di no.

Pertanto, sedare la libertà, saperla contenere in argini propri è stato un compito, direi un dovere quasi patriottico (repubblicano),di ogni leader comunista che si rispetti.

A questa cultura politica ad alto tasso pedagogico si ispira il sindaco Lepore. In presenza di molte proteste popolari per le opzioni politiche (punitive dei redditi bassi) della sua Giunta ha dichiarato da par suo, cioè in forma magistrale e solenne: ”Sono sicuro che i bolognesi col tempo capiranno, e mi ringrazieranno”.

Per coprire alcune delle sue gesta anche peggiori purtroppo il comunismo alla bolognese ha potuto godere di un privilegio, cioè contare sul silenzio di una parte della stampa.

Sto parlando della redazione locale del Corriere della Sera e soprattutto de la Repubblica. Vocazione servile o conformismo la loro al Pci? Oddio, non usiamo parole grosse e impudiche. Diciamo che molti giornalisti mostrarono scarsa licenza di documentare e alzare la voce. Scelsero la strada di ammutolire come servizio, un valore aggiunto alla potenza locale del Pci.

Questa stampa compiacente e lasciva ha fatto da ruota di scorta all’amministrazione di Bologna. I suoi dirigenti (quindi non solo Zangheri che veniva da Rimini) hanno avuto un grande coraggio.

Non ce ne voleva poco per esprimere una grande solidarietà, anzi un sentire comune con quanti tra i bolscevichi già nel 1917 avevano conquistato il Palazzo d’Inverno.

I compagni bolognesi lo manifestarono in un modo molto concreto, in circa un secolo non si sono mai affollati per scendere in piazza per denunciare l’indicibile e infinita realtà del dispotismo comunista. Gli storici francesi per primi si sono chiesti se esso sia stato peggio e comunque abbia anticipato quello fascista e nazista.

Alla Fondazione Istituto Gramsci nessun intellettuale metterebbe a rischio la propria devota vocazione con queste domande. Anche la fedeltà a chi fa le nomine dei membri del comitato scientifico e garantisce porte girevoli non è acqua.

I comunisti di Bologna hanno fatto di più in termini di lealtà e compiacenza a Mosca. Infatti hanno sempre condannato, con carta e penna, manifestazioni popolari, convegni, propaganda minuta l’imperialismo degli Stati Uniti. Lì, ossia nello sceriffo, si è sempre annidato l’unico vero grande nemico.

Ancora oggi il blog di un funzionario dell’ufficio di statistica Comune di Bologna ed ex collaboratore dell’edizione regionale de la Repubblica (Fausto Anderlini), mostra la via retta da seguire.

Quando deve illustrare che cosa è il capitalismo ama pubblicare foto di periferie degradate di città statunitensi. Fa anche di più perché tesse l’elogio di Lenin, argomentando la sua superiorità rispetto ad un povero sociologo da suburra come Max Weber. E parole energiche di empatia e gratitudine sono riservate a Putin. Anche per il lavoro sporco di sangue, ma alla fine apprezzatissimo, in Ucraina. Molti dei dirigenti locali e regionali del comunismo emiliano amano comparire nei feulliton politici di Anderlini. Un comunista intemerato, nei secoli devoto al totem del totalitarismo sovietico.

Mi sia permesso ricordare un altro episodio. Sono stato iscritto al Pci. Mi hanno, però, sempre considerato “un ospite ingrato” per dira con Franco Fortini.

Avevo il vizio di collaborare ai giornali borghesi, in particolare al Corriere della Sera dove commentavo le riunioni del Comitato centrale del partito. Alla fine Berlinguer si scocciò e diede ordine a Renzo Imbeni, segretario della federazione (più grande del mondo) di darmi una lezione, cioè sedarmi.

Venni convocato nella sezione del mio quartiere alla presenza di uno stuolo di giornalisti del partito che non avevo mai visto. Il missus dominicus inviato per mostrificarmi presso gli iscritti era un funzionario che veniva dalla guida dei tram, un autista insomma. La sua relazione fu implacabile e si chiuse con la domanda fatale “Chi ti paga, e quanto o pagano per ciò che scrivi?”.

Confesso che restai tramortito, ma anche incredulo di fronte a questa domanda. Non ricordo se lessi gli appunti che avevo per le mani. Si trattava della relazione che nel 1992 il procuratore generale russo Stepankov aveva inviato al suo collega siciliano, Giovanni Falcone. Era la narrazione del controllo della mafia sullo Stato sovietico, dell’esistenza della Gladio rossa (l’apparato para-militare del Pci),dei lista dei sacchettoni di rubli che il Pcus aveva mandato prima mensilmente, poi bimestralmente. Dalla fondazione del Comintern nel 1918-’19 e poi del Cominform fino alla nel 1947 fino alla segreteria di Enrico Berlinguer.

La refurtiva finanziaria veniva consegnata dagli agenti del KGB nel giardinetto dell’abitazione dell’ambasciatore sovietico a Roma. A prelevarla era il senatore Ilio Barontini che in una banca del Vaticano li cambiava in bigliettoni verdi chiamati dollari degli Stati Uniti e poi li consegnava alla Direzione del Pci in via delle Botteghe Oscure. Di qui il malloppo veniva rimesso agli uffici delle Federazioni provinciali del Pci .

Dunque il mio feroce inquisitore probabilmente metteva insieme il pranzo con la cena grazie alla biada proveniente da Mosca. Non capii con quale faccia tosta potesse chiedermi quanto il Corriere della Sera compensasse la mia collaborazione.

Era un dialogo impossibile. Per questo autista promosso inquisitore e investito di compiti censori lo stipendio che egli riceveva dallo straniero (anzi il centro del regime dispotico del totalitarismo di sinistra, come diceva Victor Serge) era una cosa non solo lecita, ma provvidenziale. Per l’afflato della religione comunista serviva a combattere il male peggiore, il capitalismo.

Io, invece, con le lirette del Corriere alimentavo, anzi peggio prolunga vo la vita terrena di questo infame modo di produzione.

È comprensibile che la decisione inaudita di raddoppiare il prezzo del trasporto pubblico(il più alto d’Italia) possa provo care timori e tremori molteplici. Si può spiegare solo in questo modo l’invenzione storiografica spassosa di Lepore prima citata.

Difficoltà di bilancio o anche una gestione inconsulta di esso possono essere la causa che hanno portato a stabilire in misura così elevata il costo del trasporto pubblico urbano.

I sindacati e le associazioni di imprenditori, studenti, personale medico ecc. hanno lamentato di non essere state coinvolte nell’analisi del problema e nella decisione finale. Dal chiacchiericcio di questi giorni è emerso che il sindaco Lepore, travolto dalle pesantissime e unanimi critiche, sarebbe disposto a fare quel che avrebbe dovuto fare prima: cioè rivedere l’applicazione erga omnes della nuova taglia sul trasporto urbano. È quanto fece lo stesso Zangheri dopo la fascinazione della gratuità indiscriminata.

Si tratta di muoversi su un sistema di esenzioni per i ceti popolari più deboli e fragili. Una volta si chiamavano fasce sociali. e la politica che l’incarnava riverberava un lessico antico anch’esso, politica della mediazione. Ma l’arroganza del potere, la pretesa di passare alla storia in fretta e furia, cioè lasciare un segno memorabile, a volte fanno perdere il bene dell’intelletto. Lepore rischia.

Il punto da cui partire è ormai un altro e molto preciso: Bologna è in preda al malgoverno. Come non è mai stata precedentemente.

A denunciare questo precipizio dovrebbe essere l’opposizione. Purtroppo il ceto politico di destra subisce e tace. Non ha esperienza di governo, e si capisce essendo di formazione recentissima. Il sospetto è che non abbia neanche cultura di governo. Il che significa che se fosse al posto dell’attuale Giunta incentrata su Lepore non saprebbe che fare. Per la città felsinea, mala tempora currunt.

E così ha ripreso a circolare una vecchia malattia, a carattere epidemico. È quella degli intrighi, dei complotti, delle verità parcellizzate o interamente false. Formano un grande mercato.

A chi cercasse un antidoto a questa ossessione incombente , posso suggerire un balsamo provvidenziale (l’autore rifuggirebbe sicura mente dall’aggettivo). È il il saggio di Adriano Prosperi appena edito da Einaudi, Cambiare la storia. Falsi, apocrifi e complotti.