Bacilieri, Mindwork: «Una madre ha skill fondamentali per il futuro lavorativo»

C’è un passaggio, nella vita professionale di molte donne, un ostacolo che non dovrebbe essere tale. Ma lo è: si tratta della maternità. Un diritto da tutelare, che invece oggi costringe molte madri di fronte una scelta: o figli o lavoro. I dati non mentono. «Se ci fosse ancora qualche dubbio sulla motherhood penalty potremmo […] L'articolo Bacilieri, Mindwork: «Una madre ha skill fondamentali per il futuro lavorativo» proviene da ilBollettino.

Mar 1, 2025 - 01:49
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Bacilieri, Mindwork: «Una madre ha skill fondamentali per il futuro lavorativo»

C’è un passaggio, nella vita professionale di molte donne, un ostacolo che non dovrebbe essere tale. Ma lo è: si tratta della maternità. Un diritto da tutelare, che invece oggi costringe molte madri di fronte una scelta: o figli o lavoro. I dati non mentono. «Se ci fosse ancora qualche dubbio sulla motherhood penalty potremmo obiettare fornendo questi numeri: nel 2022 su oltre 61mila genitori che hanno lasciato il lavoro, il 73% erano mamme», dice Chiara Bacilieri, esperta di psicologia del lavoro e Direttrice Marketing, Comunicazione e Innovazione di Mindwork.

«Altre statistiche segnalano come una donna su cinque lasci il lavoro dopo la maternità e come solo il 57% delle madri con due o più figli lavori, rispetto al 91% dei padri. La maternità costituisce ancora oggi in Italia un forte freno all’avanzamento di carriera delle donne. È una disparità che esiste anche nelle aziende che vantano l’applicazione di politiche per l’uguaglianza di genere. Basta salire nelle gerarchie e vedere come anche lì la presenza femminile vada a calare».

Ci sono stereotipi da abbattere nella maternità?

Esattamente. Per cultura, si tende a pensare che una donna, diventando madre, abbia meno da offrire sul lavoro. In realtà, è il contrario: la genitorialità sviluppa competenze fondamentali, anche per i padri».

Che cosa si impara nel crescere un bambino?

«Si sviluppano diverse abilità, in particolare le cosiddette competenze soft che lo stesso World Economic Forum considera sempre più cruciali per il lavoro di oggi e del futuro. Parliamo di empatia, problem solving, gestione del cambiamento, per esempio. Tutte capacità fondamentali che, però, spesso rimangono invisibili agli occhi delle aziende».

Il tutto ha a che vedere anche con la discriminazione di genere?

«La distorsione inizia da lì. Innanzitutto nei modelli di leadership costruiti nella storia. Il concetto stesso di leadership è stato storicamente plasmato su un modello che privilegia tratti considerati tradizionalmente maschili, come la decisionalità e l’autoritarismo, in linea con il predominio degli uomini nelle posizioni di potere. Lo stereotipo del capo è ancora associato a caratteristiche come l’assertività, la fermezza nelle decisioni e il controllo. Questo modello non tiene conto di competenze importanti, come l’empatia e l’ascolto, che sono fondamentali per costruire relazioni nei team di lavoro. In molte aziende, sono qualità ancora ignorate».

Può spiegarci in che senso?

«Le donne ci sono ma non si fanno avanti: sento dire spesso questa frase da dirigenti di aziende in cui la presenza femminile raggiunge il 50%. Peccato però che, salendo nella gerarchia, la percentuale cali drasticamente. In effetti, nelle aziende italiane, le donne raramente ricoprono ruoli decisionali. E una delle ragioni è anche che non si fanno avanti, o almeno non quanto gli uomini. Ma la vera domanda è: perché?»

Che spiegazione si è data?

«La ragione non risiede nelle donne, ma nella cultura degli ambienti di lavoro. Nelle imprese italiane, la presenza femminile rappresenta il 28% dei manager e solo il 19% dei dirigenti, una vera e propria “minoranza” nei ruoli decisionali. Questo squilibrio non è solo una questione numerica, ma una condizione che limita la piena espressione del loro potenziale, a causa di un modello le caratteristiche che fanno parte del potenziale femminile. Non solo. Le donne spesso si sentono costrette a “farsi indietro” piuttosto che avanzare: nella maggior parte dei casi, infatti, sono loro a dover scegliere tra carriera e famiglia.La ragione non è da ricercare nelle donne ma nella cultura degli ambienti di lavoro. Nelle imprese italiane le donne rappresentano il 28% dei manager e il 19% dei dirigenti. Sono a tutti gli effetti una “minoranza” nei ruoli decisionali. Ed è una condizione che limita la piena espressione delle loro capacità. Perché lo squilibrio si riflette anche nelle aspettative sulle caratteristiche che devono mostrare di avere i leader. Qui rispunta il retaggio culturale. Se esiste uno standard prevalente e non si hanno quelle capacità tipiche, di impronta maschile, che non rientrano nella media per così dire, farsi avanti diventa complicato».

Questo è quello che succede nelle aziende. Nel privato invece, nelle case di ognuno, dove si annidano le disparità?

«Il gender gap sul lavoro è solo la punta dell’iceberg delle disparità che si verificano in molti altri ambiti. Per esempio, è ancora radicata la convinzione che le donne debbano sacrificare la loro carriera per la famiglia. I compiti di assistenza e cura ricadono di default ancora principalmente sulle loro spalle. Secondo le ricerche, dedicano in media 5 ore e 5 minuti al giorno alle attività di assistenza e di cura, contro solo 1 ora e 48 minuti per gli uomini. Un vero e proprio secondo lavoro, con un però: non è retribuito».

Per colmare questo divario è necessario un impegno collettivo

«Per colmare questo divario, è necessario un impegno collettivo. Agire sui motivi alla base delle disuguaglianze è l’unico modo per cambiarle davvero. Per questo, è fondamentale che si mobilitino sia le organizzazioni e le istituzioni, sia ciascuno di noi. Promuovere una maggiore condivisione dei carichi di cura può fare la differenza».

La chiave è quindi una genitorialità condivisa al cento per cento

«È fondamentale per ottenere la parità. Paesi come Spagna, Finlandia, Svezia e Norvegia ne sono un esempio. Ma il cambiamento deve partire prima, già nell’infanzia. La Spagna, ad esempio, dal 2022 ha vietato la pubblicità di giocattoli che perpetuano stereotipi di genere. L’obiettivo è rompere il luogo comune secondo cui le bambole e le cucine sono solo per bambine, mentre robot e macchinine sono solo per bambini».

Anche il marketing deve giocare la sua parte, insomma, per generare un rovesciamento della visione della maternità

«In fondo, non fa che contribuire a plasmare ciò che consideriamo “normale”. E il cambiamento verso una società più inclusiva e giusta deve passare anche da qui. È curioso perché quello che noto è che mentre nel marketing si cercano sempre modi nuovi e creativi per ascoltare e anticipare i bisogni dei consumatori, nel campo dei diritti e della parità il processo sembra inverso. Sono i cittadini a doversi mobilitare».

Cosa intende?

«Nell’ambito dei diritti, spesso sono le persone ad attivarsi per far sentire la propria voce. A volte lo fanno in modi quasi scenografici, come nel caso della campagna The Dad Shift nel Regno Unito, lanciata da attivisti per promuovere il diritto dei padri a partecipare più attivamente alla cura dei figli. Un tema di grande rilevanza, considerando che lì il congedo di paternità retribuito è di sole due settimane, con un compenso inferiore alla metà del salario minimo».

Qual è invece il legame tra congedo di paternità e parità di genere?

«Secondo le statistiche, l’introduzione del congedo nei Paesi europei ha aumentato i livelli di occupazione delle madri del 17%. Nei Paesi che offrono almeno sei settimane di congedo per i padri, il gender gap retributivo e di partecipazione al lavoro si è ridotto rispettivamente del 4% e del 3,7%. Limitare la possibilità dei padri di vivere appieno il loro ruolo di genitori, mantenendo il carico di cura concentrato solo sulle donne, contribuisce al divario lavorativo ed economico che le penalizza. In più, significa ridurre per gli uomini l’opportunità di essere presenti nella vita familiare e nella crescita dei propri figli, alimentando un modello che li esclude dalla sfera della curaIntrodurre il congedo nei Paesi europei ha aumentato i livelli di occupazione delle madri del 17%. In quelli che offrono almeno sei settimane di congedo per i padri, il gender gap retributivo e di partecipazione al lavoro si sono ridotti rispettivamente del 4 e 3,7%. Limitare la possibilità dei padri di vivere appieno il loro ruolo di genitori mantenendo il carico di cura concentrato solo sulle donne contribuisce al divario lavorativo ed economico che le penalizza».

Parliamo della possibilità dei padri di assentarsi dal lavoro per farsi carico della cura dei piccoli insieme alle madri: come si dovrebbe agire in questo campo?

«Posso portare i casi di aziende virtuose. Alcune hanno esteso il congedo di paternità, andando oltre i dieci giorni obbligatori previsti dalla legge e dando ai neopapà la possibilità di trascorrere più tempo con la famiglia, favorendo una maggiore equità nella condivisione delle responsabilità di cura e facilitando così il rientro al lavoro delle madri. Non va però dimenticato che non basta introdurre questo tipo di policy: senza un cambiamento culturale che normalizzi il congedo di paternità, molti uomini continueranno a sentirsi in difficoltà nel richiederlo, temendo ripercussioni sulla carriera o il giudizio dell’ambiente di lavoro».

Le assenze sul lavoro degli uomini che hanno appena avuto un figlio non sono ben viste?

«In alcuni contesti, l’assenza dal lavoro dei padri per dedicarsi alla cura dei figli è ancora vista in modo poco favorevole. Per cambiare questa percezione, servono interventi che sensibilizzino sul tema e valorizzino il ruolo paterno, mettendone in luce l’importanza per l’equilibrio familiare e lavorativo.In alcune imprese anche il semplice utilizzo dei giorni obbligatori per legge di congedo parentale da parte dei padri è ancora visto negativamente. Servono interventi che sensibilizzino sul tema, che mettano in luce l’importanza del ruolo dei padri».

Insomma, anche la formazione deve fare la sua parte

«Molte aziende offrono percorsi formativi dedicati non solo ai neogenitori, ma anche a genitori con figli più grandi e a caregiver familiari. Questi programmi includono consulenze psicologiche e sessioni di coaching, pensati per affrontare le transizioni familiari e supportare il rientro al lavoro dopo eventi significativi, come la nascita di un figlio.È di supporto per genitori, neogenitori e più in generale per i caregiver. Alcune realtà offrono percorsi di formazione dedicati ai neogenitori, ma anche a genitori con figli più grandi e a caregiver familiari. Si organizzano iter che comprendono consulenze psicologiche e sessioni di coaching per affrontare le transizioni familiari e il rientro al lavoro dopo avvenimenti dirompenti come la nascita di un figlio».

Cosa si apprende in questi corsi?

«Alcune sessioni si concentrano sullo sviluppo di competenze soft fondamentali per affrontare i momenti di incertezza, come la gestione del tempo, la comunicazione empatica e la capacità di prendere decisioni sotto pressione. Ci sono anche sessioni dedicate a riconoscere e valorizzare le competenze che si sviluppano attraverso la genitorialità, come il problem solving, la gestione dei conflitti e la resilienza. Tutte competenze che, come dicevamo prima, sono trasferibili e molto utili anche nel contesto lavorativo».

Non devono mancare anche aiuti concreti e tangibili

«Alcune aziende offrono anche servizi di cura per i figli. Tra le misure più efficaci ci sono gli asili nido aziendali, le convenzioni con strutture esterne e i servizi di babysitting in caso di emergenza. Si tratta di iniziative che alleggeriscono il carico di cura familiare, permettendo una maggiore continuità lavorativa e riducendo il livello di stress delle madri e dei padriLe aziende più all’avanguardia in questo senso riconoscono anche servizi di cura per i figli. Tra le misure più efficaci ci sono gli asili nido aziendali, oppure le convenzioni con strutture esterne e i servizi di babysitting in situazioni di emergenza».

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