Arte e complessità: tre mostre contro le semplificazioni del nostro tempo

Tre chicche da vedere: la mostra di Kiefer ad Amsterdam che evoca Van Gogh, quella che celebra i 100 anni del magazine “The New Yorker” e le “Livre d’Heures des Très Riches Heures du Duc de Berry” al Castello di Chantilly L'articolo Arte e complessità: tre mostre contro le semplificazioni del nostro tempo proviene da FIRSTonline.

Mar 30, 2025 - 11:53
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Arte e complessità: tre mostre contro le semplificazioni del nostro tempo
Van Gogh
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Vorremmo segnalare tre eventi purtroppo non facilmente raggiungibili senza una forte motivazione. Esiste però la possibilità di accedere a buoni surrogati che, naturalmente, non offrono la stessa esperienza di una visita diretta. Mi riferisco alla mostra di Kiefer ad Amsterdam, a quella che celebra i 100 anni del magazine “The New Yorker” e infine alla possibilità di vedere una opera unica, più che rara, le “Livre d’Heures des Très Riches Heures du Duc de Berry” al Castello di Chantilly a partire dalla prossima estate. Questo codice miniato, che si potrà vedere a pagine sciolte, è il più bel libro che sia mai stato realizzato.

Anselm Kiefer: quando impareremo?

L’80enne Anselm Kiefer è spesso considerato il più importante artista vivente. Lo abbiamo già visto a Firenze: nel cortile di Palazzo Strozzi “Gli angeli ribelli” (8×9 metri) contaminava lo spazio di materica immensità. “Sag mir wo die Blumen sind” (Dove andranno i nostri fiori) è il titolo della mostra che lo Stedelijk Museum e il Van Gogh Museum di Amsterdam hanno allestito per celebrare gli 80 anni di Anselm Kiefer (fino al 9 giugno 2025). Il titolo è tratto da una canzone di protesta del 1955 “Where Have All the Flowers Gone” del cantante folk e attivista Pete Seeger, resa popolare da Marlene Dietrich nella versione tedesca, da Patty Pravo in quella italiana e interpretata da par suo da Joan Baez. Per il tema della mostra, Kiefer ha tratto ispirazione da un verso significativo della canzone che recita “Quando mai impareremo?” (When will we ever learn?/Wann wird man je verstehen?).

Le composizioni di Kiefer sono stordenti, lo sono particolarmente i paesaggi che richiamano quelli che Tarkovskij riprende a volo d’uccello in “Andrej Rublëv”: campi, acque, alberi immoti e persone perdute in queste immensità. E sono proprio i paesaggi ad unirlo a un sommo artista al quale deve molto, Vincent Van Gogh. Già da liceale Kiefer, con una borsa di studio, si era recato a visitare i luoghi dell’artista olandese per trarne linfa artistica. Kiefer e van Gogh dialogano nella mostra di Amsterdam: 25 dipinti, 13 disegni e tre film dell’artista tedesco dal 1973, più otto opere dell’olandese che si riflettono nei giganteschi dipinti di Kiefer, fino a 10 metri.

Gli spessi strati di colore di van Gogh vengono reinterpretati da Kiefer mediante la sovrapposizione di terra, paglia, felce bruciata, cenere, foglie e tessuti, creando una superficie materica densa e stratificata, ma ordinata. Utilizza una vasta gamma di colori caratterizzati da tonalità terrose, scure e opache. La sua tavolozza è dominata da grigi plumbei e cinerei, marroni terrosi e ocra, neri carbonizzati, ruggine e tonalità ossidate e pigmenti dorati. Le composizioni sembrano rovine devastate, reminiscenze di campi di battaglia solcati da carri armati e artiglieria. Le fosse scavate dai carri armati russi nel 1969 nei campi e nei boschi della Cecoslovacchia si vedevano dal satellite.

Il filo conduttore dell’arte di Kiefer, nato nel 1945, è il trauma irrisolto della guerra, una ferita collettiva con cui l’umanità non riesce mai a fare definitivamente i conti. Da qui il “quando mai impareremo?”.
Per chi non ha la possibilità di essere Amsterdam, c’è un documento eccezionale sull’opera di Kiefer. Si tratta del film “Anselm Kiefer” di Wim Wenders, disponibile su SkyArte/NowTV. Li c’è già tutto alla maniera di Wenders.

Il cento anni del New Yorker

Chi abbia letto “I bostoniani” di Henry James o anche visto l’omonimo film del 1984 di James Ivory, ritroverà qualcosa di vagamente familiare nel personaggio di Eustace Tilley, emblema della rivista letteraria “The New Yorker”. Il personaggio, creato da Rea Irvin nel 1925, con monocolo, postura aristocratica e malcelato distacco richiama l’archetipo jamesiano del bostoniano colto, raffinato e lievemente snob. Ma non commettiamo gaffe perché Boston e New York sono in fiera rivalità: Eustace Tilley è un newyorkese e rappresenta l’eleganza e lo spirito urbano della rivista, che riflette l’identità culturale della Grande Mela.

L’archivio del “New Yorker,” presso la New York Public Library, contiene oltre 2.500 scatole di materiali di tutti i tipi. Vi troviamo anche molti nomi celebri (Updike, Salinger, ecc.) della vita letteraria americana.
Questo materiale fa ora parte di un’esposizione, “A Century of The New Yorker” allestita presso la Public Library fino al 21 febbraio 2026 nei locali dello Stephen A. Schwarzman Building, l’edificio principale della biblioteca. In 100 anni sono usciti 5.057 numeri del settimanale, mezzo milione di pagine. Un numero ha in media un centinaio di pagine fitte di testo in Adobe Caslon Pro, vignette, illustrazioni con i titoli nell’inconfondibile carattere Irvin.

Nella mostra sono documentate anche le funzioni, spesso neglette, del lavoro editoriale: editing, verifica dei fatti, illustrazione, impaginazione, grafica, composizione, protoredazione, tipografia e via dicendo.
Sappiamo tutti bene quanto le figure che svolgono queste mansioni di supporto autoriale siano essenziali nel lavoro editoriale di qualsiasi tipo per portare al pubblico un contenuto pulito, decoroso e verificato con cura. Chi non ha la possibilità di essere a New York nell’arco del 2025 e dei primi due mesi del 2026 ha a disposizione un ottimo surrogato: il film di Stephen J. Grant “A Century of The New Yorker” su Vimeo con trascrizione e sottotitoli.

Il libro più bello del mondo

Il libro più bello del mondo è “Les Très Riches Heures du Duc de Berry”, un capolavoro con 131 miniature che farebbero invidia anche a un maestro del gotico fiorito come Gentile da Fabriano. Dodici miniature a pagina intera raffigurano i mesi dell’anno con scene di vita quotidiana e attività stagionali. Ci sono poi miniature astronomiche, scene bibliche e religiose e illustrazioni delle preghiere e degli uffici.

In totale, 66 sono a pagina intera e 65 di formato più piccolo. I fratelli Limbourg – Paul, Jean e Herman – iniziarono a dipingere queste spettacolari miniature nel 1404, poi completate da altri miniatori dopo la loro morte per peste. Tutti questi artisti si misurano con Gentile nella difficile impresa di dare grazia alle figure, luminosità ai colori e ricercare una minuziosa precisione nei dettagli dei personaggi e del paesaggio. E lo fanno nello spazio ristretto della pagina di un libro, non sulla superficie di una grande tavola come l’”Adorazione dei Magi” degli Uffizi o sulla parete della cappella di Palazzo Medici-Riccardi, affrescata da Benozzo Gozzoli.

Il libro d’ore è un tipo di manoscritto devozionale, spesso decorato, molto diffuso nel tardo Medioevo, destinato ai laici per la preghiera privata quotidiana, da portare anche durante i viaggi.
Proprio per questa ragione, questi libri dovevano avere dimensioni contenute per poterli inserire nel bagaglio e maneggiare. Il “Libro d’ore del Duca di Berry”, figlio del re di Francia, misura come un A4: 29 per 21 cm, spessore 9 cm.

È conservato al Castello di Chantilly, a 50 km da Parigi, presso il Musée Condé. Ora il libro è stato smontato dalla rilegatura per il restauro e i fogli saranno esposti singolarmente nelle teche in una mostra nell’estate del 2025. L’occasione di vederlo così non si ripeterà di nuovo per diverse generazioni. Anche perché il “Libro d’ore del Duca di Berry” è stato mostrato al pubblico solo due volte, nel 1956 e nel 2004.
Abbiamo tempo per organizzarci: la mostra aprirà il 7 giugno 2025 e chiuderà il 5 ottobre. Nel frattempo, possiamo ammirare il libro sfogliandolo virtualmente sul sito del Museo Condé.