Yorgos Kartàkis, Gente che beve il caffè in riva al mare (traduzione di Massimiliano Damaggio)
“Quanto vive un morto?”, avrei dovuto chiedere a Yorgos quando sono andato a trovarlo a Chanià. Di solito lui passeggia lungo il mare, fino al porto antico, e c’è un caffè dove si siede a guardare l’orizzonte. Il caffè non era granché, a dire la verità, ma conoscere un poeta di persona ed esserne forse […] L'articolo Yorgos Kartàkis, Gente che beve il caffè in riva al mare (traduzione di Massimiliano Damaggio) proviene da Il Fatto Quotidiano.

“Quanto vive un morto?”, avrei dovuto chiedere a Yorgos quando sono andato a trovarlo a Chanià. Di solito lui passeggia lungo il mare, fino al porto antico, e c’è un caffè dove si siede a guardare l’orizzonte. Il caffè non era granché, a dire la verità, ma conoscere un poeta di persona ed esserne forse anche amico (quelle rare volte che un poeta corrisponde anche a un essere etico) può facilitare la strada per la comprensione profonda dei suoi testi. Ancora ho negli occhi l’immagine di Yorgos che guarda fuori dalla vetrata l’orizzonte liquido del mare, verso quella linea inconsistente fra acqua e aria dove tutto sembra collidere per poi espandersi senza suono, nell’universo parallelo dove i vivi e i morti, il tempo e l’eternità, quindi, vanno a braccetto.
Yòrgos Kartàkis (Γιώργος Καρτάκης) è nato nel 1963 a Chanià, Creta, dove vive e lavora come insegnante di tedesco. Poeta, pittore e traduttore, ha pubblicato tre libri di poesia propria, un’antologia di poeti tedeschi dal dopoguerra ad oggi e uno di poesie di Rainer Maria Rilke.
M. D.
Testamento
Sono vissuto più avventatamente di come scrivo –
questo sappiatelo.
Questi versi non sono figli
della misura e della compostezza.
Voi, però, che avete bisogno della stabilità,
scriverete versi belli.
E voi, che avete bisogno di versi,
vivrete sull’orlo dell’abisso.
*
Avevo una mamma brutta
Mia madre aveva le mani gonfie
per i nastrini della fabbrica:
sessanta coperchi al minuto,
cinque bocche a casa
più la sua
da riempire.
Non m’abbracciava mai
per dodici ore tutte intere,
e nemmeno si prendeva cura di sé.
Aveva i capelli biondi, gli occhi azzurri,
ma lo ricordava,
non rispondeva mai a mio padre,
non si fece mai una fotografia
e le sue ultime parole
furono che mi amava.
Fatevi spazio, allora, nei ricordi,
nella scatola delle immagini arrugginite –
io ci entro in questo corpo
per quanto stretto mi stia.
*
Vassilàkis S.
Vassilàkis, gli dico, che fai con tanta morte,
non ti fanno male le ossa?
Vassilàkis, gli dico, lo vedo nella fotografia
che l’avevi presa, la decisione.
– Tu che ne vuoi sapere? mi risponde.
Vassilàkis, gli dico, ti sento, ti sento…
– È che anche tu la trasporti in te, mi dice.
Vassilàkis, gli dico, come hai resistito?
– Come farai anche tu, mi dice.
Vassilàkis, gli dico, mi manchi!
Mi guardò, rideva, s’infilò le mani in tasca e si allontanò. Blu il giaccone. L’albero verde. Forse un ulivo. Il muro rosso scolorito, rosso scorticato, anni e anni. Avanzò nel cortile. Sentivo questi passi di cuoio. Da qualche parte c’è del basilico, dicevo. Sicuro. Da qualche parte, sotto un ulivo, nell’ombra dell’estate. Il mio morto. Vassilàkis. Il suo sorriso.
Leggerò solamente le poesie dei morti.
Loro sanno.
*
Kunefé
Kunefé,
potrebbe essere il nome d’una torre a Costantinopoli
o la punta del tuo seno.
Invece è un dolce.
E io un bravo bambino
che te lo giura:
Non mangerò il dolce
nemmeno la domenica
perché lo so:
aspettiamo ospiti.
Gli ospiti erano sempre privilegiati
– si mangiavano il nostro dolce
che a loro insaputa preparavamo
senza che avessero fatto niente:
Non sbattevano le uova
non ungevano la teglia
e non aspettavano
(ah, come aspettavano!)
che fosse pronto.
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