Prima di temere che l’AI ci rubi il lavoro, dobbiamo aver paura dello sfruttamento che crea già oggi

Come nelle peggiori fantasie asimoviane, ci troviamo a impaurirci per la minaccia delle AI future: quelle che potrebbero leggerci il pensiero attraverso i dati, o imparare la creatività, oppure, ancora, rubarci il ruolo che ricopriamo in molte delle nostre attività, tra cui il lavoro. C'è però un altro fenomeno, già in atto, che mostra il rapporto tra lavoro e AI da una prospettiva opposta: non quella delle attività lavorative da cui potremmo venire esclusi, ma quella dell’enorme mole di lavoro e lavoratori che invece risultano ormai indispensabili nell’addestramento di questi software e che vengono sfruttati. L'articolo Prima di temere che l’AI ci rubi il lavoro, dobbiamo aver paura dello sfruttamento che crea già oggi proviene da THE VISION.

Feb 21, 2025 - 19:22
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Prima di temere che l’AI ci rubi il lavoro, dobbiamo aver paura dello sfruttamento che crea già oggi

Sono stati molti, negli ultimi anni, i saggi e le ricerche che si sono occupati di provare a concepire una “storia della paura”, parallela e complementare a quella dei grandi eventi, delle date, dei personaggi che abbiamo studiato sui libri. Quasi come se per esorcizzare le paure che oggi sentiamo tanto vicine, ci servisse osservare, catalogare, etichettare quelle passate, guardando quanto siano cambiate nel corso dei secoli. I nostri avi, per esempio, pregavano per la liberazione dalla tempesta, dalla peste, dalla fame e dalla guerra. Paure violente, selvatiche, intense, che non sono certo state debellate e anzi di fronte all’attuale situazione geopolitica e al cambiamento climatico riemergono con forza –, ma che erano ritenute in qualche modo arginabili, con le adeguate contromisure. Le paure contemporanee, invece, sono meno facili da individuare, comprendere e quindi da controllare, dato che sembrano diffondersi nell’atmosfera di un’epoca storica, inquinandola fino a renderla angosciosa, proprio perché non si sa bene come farvi fronte: dal tramonto delle ideologie, agli effetti della globalizzazione, passando per il predominio della tecnica e delle tecnologie. Quest’ultima, in particolare, è una paura che compare sempre più spesso tra i nostri pensieri, soprattutto dopo l’avvento dell’intelligenza artificiale, con le sue sfide, potenzialità e rischi. Così, come nelle peggiori fantasie asimoviane, ci troviamo a impaurirci per la minaccia delle AI future: quelle che potrebbero leggerci il pensiero attraverso i dati, o imparare la creatività, oppure, ancora, rubarci il ruolo che ricopriamo in molte delle nostre attività, tra cui il lavoro.

Credo che tutti ci siamo chiesti almeno una volta quando e in che misura l’AI riuscirà a sostituirci nella nostra professione. A me capita di farlo a ogni suo ulteriore perfezionamento, compreso il lancio di DeepSeek. Ma nella storia recente non è la prima volta che alcuni lavori vengono sostituiti dalle macchine, senza che in realtà ci siano grossi sconvolgimenti in termini di occupazione. Ne ha parlato circa dieci anni fa Are robots taking our jobs?, uno studio degli economisti australiani Jeff Borland e Michael Coelli, che smentiva le previsioni catastrofiche sulla disoccupazione tecnologica e la fine del lavoro, dimostrando che l’ammontare totale degli impieghi allora disponibili sul mercato non era diminuito con l’introduzione delle tecnologie digitali. In sostanza, nonostante la preoccupazione sia tutt’altro che inedita, tendiamo a continuare a stimare l’impatto dell’AI sul lavoro basandoci sulla quantità di posti che questa finirà per cancellare o per rubarci, prima o poi.

C’è però un altro fenomeno, già in atto, che mostra il rapporto tra lavoro e AI da una prospettiva opposta: non quella delle attività lavorative da cui potremmo venire esclusi, ma quella dell’enorme mole di lavoro e lavoratori che invece risultano ormai indispensabili nell’addestramento di questi software, per adeguarli ai molti compiti che affidiamo loro quotidianamente. L’implementazione dell’AI, infatti, ha contribuito a creare nuove mansioni e aumentato la richiesta di personale specializzato in ambito tech. Il che sembra rappresentare un dato positivo, se non fosse che proprio la gestione di questi nuovi flussi di tecnologie, persone e risorse sta aprendo la strada a varie strategie di sfruttamento del lavoro, al punto da aver ripristinato, aggiornandolo, un concetto che pensavamo di avere ormai sepolto nel passato: quello di proletariato.

Se i motori di ricerca degli e-commerce riescono a restituirci tutti risultati che corrispondono al “blazer grigio” che vorremmo acquistare, se Facebook riconosce che un certo contenuto è violento o pedopornografico procedendo a bloccarlo, o se un chatbot del servizio clienti sa stabilire quali siano le informazioni di cui abbiamo bisogno in una determinata circostanza, è sempre perché un essere umano li ha addestrati, ha insegnato loro come fare. Il proletariato specializzato creato dall’AI è dunque rappresentato da tutte quelle persone che nutrono i programmi di apprendimento automatico con nuovi dati, dopo averli analizzati e resi intelligibili per le macchine, al fine di rendere la loro performance sempre più precisa e soddisfacente. Nonostante si tratti di professioni che rispondono a nuove esigenze nel mercato del lavoro, le logiche di sfruttamento a cui vengono sottoposti i proletari dell’AI non vanno però attribuite alla specificità del progresso di questa tecnologia, dato che sono le stesse che conosciamo da tempo, figlie di un sistema che punta alla massimizzazione del profitto a ogni costo, senza alcuna valorizzazione del capitale umano.

A leggere i resoconti raccolti dal ricercatore e docente di sociologia Antonio Casilli insieme al suo team, in uno degli ultimi studi curati dal Diplab, il Politecnico di Parigi – uno dei tre istituti al mondo che si occupa di ricerca in questo campo –, sembra infatti di trovarsi di fronte a una delle pagine scritte da Marx oltre un secolo fa. Lo studio, che ha coinvolto più di quattromila persone in venti paesi del mondo, descrive esperienze di lavoratori costretti a routine ripetitive e alienanti di microtask (traduzioni, descrizioni, tagging, sondaggi) che vengono pagate loro anche soltanto 0,001 dollaro l’una, nonostante siano indispensabili per garantire il corretto apprendimento per i software. Racconti che fanno pensare a quel lavoro “di sacrificio e di mortificazione” descritto nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, dove Marx parla dell’alienazione come di un meccanismo della produzione che toglie qualsiasi riconoscimento e scopo all’attività umana, facendola sembrare una continua corsa su una ruota da criceti. Anche se i proletari dell’AI sono spesso iper-qualificati nel loro ambito, infatti, le loro competenze specifiche tendono a non essere riconosciute, dato che una volta attestate dovrebbero corrispondere a un compenso economico molto più alto di quello che effettivamente percepiscono. In questo scenario, che mi immagino come una situazione a metà tra una una rivisitazione cyberpunk delle fabbriche marxiane e gli uffici del reparto macrodata refinement di Severance, il lavoratore viene quindi privato di qualsiasi gratificazione, che sia professionale, economica, o “di senso” dato che esso si perde nella ripetitività di una routine lavorativa sfinente. 

Sempre più spesso, tra l’altro, l’ingresso in questa classe di lavoratori avviene prima che le persone siano effettivamente assunte da un’azienda che lavora con l’AI. L’ho appreso da LinkedIn, attraverso i post di indignazione che si sono moltiplicati negli ultimi mesi sulla mia bacheca. Oltre all’intervento sulle informazioni in possesso dei software, quelle che le AI apprendono attraverso il lavoro sui dati, esiste infatti un altro tipo di allenamento all’interazione e alla conversazione uomo-macchina, che a breve potrebbe rendere questa tecnologia un’enorme risorsa in molteplici settori, tra cui quello delle risorse umane, dove contribuirebbe a snellire le prime fasi della selezione dei candidati. È qui però che si apre un vaso di pandora di offerte di lavoro fasulle, iter di selezione portati avanti da persone ignare soltanto per addestrare un’AI, posizioni che vengono cancellate immediatamente dopo la fase dei colloqui, perché semplicemente non servono nell’azienda se non nella misura in cui provvedono a raccogliere personale  “volontario” – dove volontario significa solo non pagato, non certo informato e concorde – su cui testare i progressi dell’intelligenza artificiale. Lo sfruttamento quindi avviene a monte, quando riguarda i lavoratori veri e propri, ma anche a valle, quando coinvolge candidati che lavorano gratuitamente e inconsapevolmente per aziende da cui non verranno mai assunti, che capitalizzano le loro capacità e il loro bisogno di trovare un impiego

Le professioni e le mansioni richieste per l’implementazione dell’intelligenza artificiale hanno dunque dato vita a un nuovo settore lavorativo che, per continuare a espandersi e a soddisfare la domanda del mercato, ha incorporato e regolarizzato dinamiche di sfruttamento sistematiche. Esse, però, non sono altrettanto nuove. E anche se la tentazione sarebbe quella di incolpare le più recenti innovazioni tecnologiche per come hanno trasformato l’attuale mondo del lavoro, nei fatti il settore tech non rappresenta  altro che uno dei mille riflessi di un sistema la cui linfa è sempre stata rappresentata dal surplus richiesto a lavoratori sfruttati, sia in termini di denaro, che di tempo ed energie. La categoria sociale del proletariato, intesa come classe di lavoratori costretta in mansioni alienanti, mal retribuite e senza particolari gratificazioni economiche o aspirazionali, è infatti tutt’altro che un unicum o una novita dell’ambiente tech, ma esiste e persiste in molti settori lavorativi, anche se ci siamo abituati a considerare desueta questa parola. 

In una società in cui l’attenzione per i diritti sociali, le tutele sindacali e la difesa del benessere dei lavoratori sono un tema preso in considerazione spesso solo nelle intenzioni della politica soprattutto per quanto riguarda l’attuale governo, nonostante l’instancabile retorica dalla-parte-dei-lavoratori di Meloni –, lavorare in condizioni simili a quelle del proletariato dell’AI sembra comunque una delle migliori opzioni: meglio di non lavorare proprio, di essere costretti a cercare un nuovo impiego, di provare ad accedere a sussidi statali per cui si rischia di non essere idonei. Finché il contesto in cui siamo inseriti continuerà a far passare lo sfruttamento come inevitabile, normalizzando lavori precari, sotto retribuiti, funzionali al solo mercato, qualsiasi evoluzione e nuova ramificazione interna al mondo del lavoro innovazioni tecnologiche comprese non potrà che andare a vantaggio delle aziende, invece che agevolare la condizione di chi lavora. Non è colpa dell’AI, infatti, se la maggior parte degli italiani continua a lavorare “per dispersione di energia”, concedendo al lavoro più di quello che gli torna indietro, magari per uno stipendio che non cresce da anni o per una vita professionale che li fa sentire frustrati e insoddisfatti. Prima di preoccuparci di un avvenire tecnologico dove l’AI potrà rubarci il posto di lavoro, dovremmo infatti temere un sistema che non vede l’ora di sostituirci, in un futuro ben più prossimo, con qualcun altro disposto a lavorare il doppio delle ore, e per metà della paga.

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