Perché contesto i calcoli di Cottarelli

Cosa ha scritto Cottarelli sul Corriere della sera a proposito del debito e dell'effetto della spesa per la difesa. L'analisi di Gianfranco Polillo

Mar 18, 2025 - 09:15
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Perché contesto i calcoli di Cottarelli

Cosa ha scritto Cottarelli sul Corriere della sera a proposito del debito e dell’effetto della spesa per la difesa. L’analisi di Gianfranco Polillo

L’editoriale di Carlo Cottarelli sul Corriere della sera (16 marzo) merita un commento. Se non altro per le sue implicazioni politiche che rappresentano la parte più debole del suo ragionamento. Accettarle significa in qualche modo dare ragione alla Lega, sia in modalità Matteo Salvini che Giancarlo Giorgetti: fulminato il primo sulla via di una pace a senso unico, il secondo da un rigurgito rigorista. Quanto al relativo algoritmo, che sostiene le conclusioni, c’è ovviamente da discutere. Le nuove Regole del Patto di stabilità, infatti, sono tutt’altro che il “verbo” del Terzo millennio.

Senza voler richiamare lo scontro, seppure sotterraneo, che distinse la posizione della Commissione europea rispetto alla delegazione tedesca, va tuttavia ricordata la triste fine toccata a Christian Lindner, l’ex Ministro delle finanze di quel Paese nonché capo di quella rappresentanza. Fu costretto alle dimissioni, su decisione di  Olaf Scholz, con una motivazione quasi insultante: “mi ha tradito troppe volte, pensa al suo partito non ai cittadini”. Oggi l’ex leader del Partito liberal democratico tedesco è solo un libero cittadino ed il suo partito è scomparso dagli scranni del Bundestag. In più Friedrich Merz, il prossimo cancelliere tedesco, sta lavorando con successo all’abolizione dello Schuldenbremse, (“freno al debito”) proprio per consentire alla Germania finanziamenti in deficit. Un vecchio mondo è morto all’improvviso.

Cottarelli, invece, lavorando con Alessio Capacci e Carlo Cignarella nel testo più analitico  (“Con ReArm Europe, il debito pubblico italiano potrebbe non scendere nei prossimi sette anni”) parte dal Piano strutturale di bilancio di medio termine 2025 – 2029, sulle cui basi fu poi costruito il Documento programmatico di bilancio 2025. Le cui previsioni, già per il 2024, possono essere confrontate con i più recenti dati Istat (Anni 2022-2024 – Pil e indebitamento AP). Confronto che, come si ricorderà, si prestò ad una doppia lettura: bene gli andamenti di finanza pubblica, male le tendenze del quadro macroeconomico, a causa di una crescita più bassa del previsto: lo 0,7% contro l’1 segnato nei documenti governativi. Per la verità nemmeno lo scorno maggiore.

Lo scorso anno il rispetto delle regole del Patto ha comportato per l’Italia, secondo gli ultimi dati Istat, una saldo positivo nei confronti dell’estero pari a 50,2 miliardi di euro: il 2,3 per cento del Pil. Il cui moltiplicatore d’impatto sul quadro macroeconomico è stato pari allo zero. In altre parole non ha prodotto ulteriori effetti positivi. Se invece quelle stesse risorse, grazie ad una politica economica più espansiva, fossero state utilizzate per far crescere i consumi, meglio ancora se a crescere fossero stati gli investimenti, ottenendo di conseguenza il semplice pareggio della bilancia commerciale, il tasso di sviluppo complessivo dell’economia nazionale sarebbe risultato certamente superiore a quello 0,7% che è stato, invece, contabilizzato. Al tempo stesso la situazione patrimoniale netta sull’estero dell’Italia è ulteriormente aumentata. Secondo la Banca d’Italia nell’anno relativo al terzo trimestre, il risultato è stato ulteriori crediti concessi per un valore pari a 155,9 miliardi di euro. Che hanno portato l’avanzo complessivo a 265,2 miliardi, pari ad oltre il 12% del Pil.

Anche lo scorso anno, quindi, l’Italia ha contribuito a formare quel montante di 350 miliardi di euro, che poi l’Europa, in larga misura, ha messo a disposizione dell’economia americana. Tema ancora una volta richiamato dalle pagine de il Corriere della sera, di questi giorni, da Francesco Giavazzi, al quale i nostri politici, in altre faccende affaccendati, ogni tanto dovrebbero prestare attenzione. Specie in un momento come questo in cui nulla sembra più essere come prima.

L’analisi di Cottarelli & Co, invece, ha come retroterra la normalità del Piano strutturale di bilancio di medio termine 2025 – 2029, elaborato nel corso dell’estate ed approvato dal Consiglio dei ministri lo scorso settembre, quando ancora alla presidenza degli Stati Uniti era Joe Biden e Donald Trump era un semplice competitor. Se paragoniamo la situazione di allora a quella che si prospetta nei mesi futuri le distanze sono semplicemente abissali, al punto che gli stessi Organismi internazionali – proprio in questi giorni le nuove stime OCSE – sono costretti a mostrare il volto più amaro del pessimismo. Ovviamente le incognite sono tutte legate alla trumpeconomics: quel ritorno ad una politica protezionistica che il mondo aveva già conosciuto negli anni ’30, ma che oggi – data la maggiore interdipendenza produttiva tra le diverse aree del globo – avrebbe effetti ben più distruttivi.

In queste condizioni affidarsi a qualsiasi tipo di algoritmo è solo un esercizio calligrafico, senza alcuna relazione con il mondo reale. Finché la situazione non si sarà stabilizzata, almeno nei suoi fondamentali, è del tutto impossibile valutare profitti e perdite. Anche perché è più probabile che alla fine non ci saranno vincitori. Contro questa prudenza, invece, il gruppo di Cottarelli tenta la strada della precisione chirurgica. La loro ipotesi è che “la maggiore spesa per la difesa abbia un effetto espansivo sul Pil, rispetto alla baseline. (Ossia al Piano strutturale di bilancio ndr.). A questo scopo, a ogni aumento di spesa rispetto al livello previsto per l’anno in corso si applica un moltiplicatore d’impatto (cioè nello stesso anno in cui si verifica l’aumento) di 0,3; un valore basso, perché negli ultimi anni tre quarti dei nostri armamenti sono stati importati dagli Stati Uniti. Inoltre, in linea con le stime disponibili nella letteratura economica sull’andamento nel tempo del moltiplicatore, assumiamo che questo diminuisca linearmente fino ad azzerarsi dopo cinque anni.”

Sulla base di questi presupposti, la stima è conseguente. Se la spesa militare dovesse aumentare, in deficit, in misura graduale, nel 2031 il rapporto debito/Pil sarebbe di 3,5 punti superiore a quello previsto dal Piano. Quindi dal 132 al 135,5%. Se invece aumentasse “di 1,5 punti percentuali all’anno nel 2025-28” per poi ridursi, in questa seconda ipotesi, alla stessa data (il 2031) il rapporto debito/Pil sarebbe pari al 135 per cento. Giocando un po’ con l’algoritmo si possono trarre alcuni elementi interessanti. Il moltiplicatore d’impatto della spesa militare è valutato in 1,2. Dato in linea con quanto previsto, in genere, dalla letteratura sull’argomento: comunque da tener presente nel caso si volesse discutere sull’efficienza complessiva del produrre “cannoni invece del burro”). Anche se il valore d’uso del secondo bene è indubbiamente preferibile.

Quell’ipotesi di un taglio netto del “moltiplicatore d’impatto” allo 0,3 rappresenta, per così, la prova regina che dovrebbe giustificare il grido d’allarme sull’andamento del debito. Sennonché comprare le armi dagli Usa potrebbe essere, invece, merce di scambio contro eventuali dazi sulle esportazioni italiane ed europee. È infatti evidente che un accordo così vantaggioso per la controparte consentirebbe di equilibrare, in qualche mondo, le bilance commerciali tra le due sponde dell’Atlantico. Ne deriva, pertanto, che il risultato netto di questa complessa trattativa dovrebbe incidere calcolo effettivo dei risultati finali. Cosa impossibile da valutare. Obiezione più che pertinente. Ma proprio per questo è bene evitare calcoli immaginifici, come quelli tentati. I cui riflessi politici sono così evidenti. Comunque sia anche nell’ipotesi peggiore – torniamo alla politica – il rapporto debito/Pil sarebbe  pari, nel 2031, al 137 per cento. Nel 2020 il valore di allora fu pari al 154,3 per cento. Certo, c’era il Covid, ma la situazione prospettica è forse migliore?