Myanmar: crisi, isolamento e scontri interni. Terremoto di regime: l’inferno è più buio
Aziende e Ong in fuga dopo il golpe del 2021. La scossa ha messo a nudo tutte le fragilità del Paese

Roma, 29 marzo 2025 – Una tragedia umanitaria amplificata dalla tragedia politica. Il regime militare, al potere dopo il colpo di Stato del 2021, ha isolato così tanto il suo Paese che, davanti a una disgrazia come il terremoto di magnitudo 7.7 che lo ha colpito due giorni fa, si è fatto trovare ampiamente impreparato a fronteggiare l’emergenza sotto più punti di vista. Così, il Myanmar si scopre ancora più solo, diviso al suo interno sotto molti punti di vista. Le comunicazioni sul territorio nazionale sono rese molto più difficili sostanzialmente per due motivi. Il primo è che le reti di telecomunicazione si sono rivelate inadeguate a una situazione del genere, complice anche il fatto che molte importanti aziende del settore hanno lasciato il Paese dopo il colpo di Stato del 2021.
Il secondo fattore è rappresentato dalle restrizioni imposte alla libertà di stampa, che non hanno fatto eccezione nemmeno davanti a una disgrazia di queste proporzioni. Il risultato è che le segnalazioni di danni e criticità hanno subito ritardi di ore. Il computo, tragico, delle vittime, ancora ieri, andava a rilento e, come in ogni dittatura che si rispetti, è lecito pensare che il numero reale arriverà dopo settimane e non verrà mai reso noto ufficialmente.
Non solo. Il limitato accesso a internet e ai social media, imposto per limitare gli scambi fra i ribelli antiregime, non ha nemmeno consentito agli utenti della rete di poter inviare segnalazioni circa la presenza di vittime o di situazioni che richiedevano un intervento urgente. Ma il dolore del popolo birmano è destinato a prolungarsi ben oltre quegli attimi di puro terrore, quando è letteralmente mancata la terra sotto i piedi.
Dal Myanmar sono scappati tutti: aziende e organizzazioni non governative. Fra le Ong, le maggiori hanno mantenuto una presenza molto limitata nel Paese, ridotta nella maggior parte dei casi a un ufficio di corrispondenza, e si sono trasferite negli Stati limitrofi, soprattutto in Thailandia, colpita anch’essa dal sisma, ma dove un sistema democratico diverso ha permesso una gestione più coordinata e trasparente.
Nemmeno la disgrazia è riuscita ad alleviare la rigidità del regime. L’ingresso nel Paese per i soccorritori internazionali è ostacolato dalle restrizioni imposte dalla giunta militare. Il leader Min Aung Hlaing, in un’insolita apertura, ha chiesto aiuto all’estero, ma il timore di molti osservatori è che i soccorsi verranno indirizzati nelle regioni più fedeli alla giunta, penalizzando quelle nelle mani della resistenza, che sono anche le più colpite dal sisma. E nemmeno il sisma ha fermato le ostilità: secondo la Peoplès Defense Force, la milizia che combatte contro la giunta per un ritorno alla democrazia, il regime ha continuato a effettuare attacchi aerei in diverse regioni. Un’indagine recente condotta dalla Bbc ha rivelato che l’esercito controlla meno di un quarto del Paese, e che per riguadagnare terreno lancia massicci raid utilizzando jet russi e cinesi. Attacchi condannati dall’Onu, che parla di crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
La scossa, tre giorni fa, ha distrutto il Paese e messo a nudo davanti al mondo le fragilità di un regime che, già prima del sisma, doveva fare i conti con 20 milioni di persone bisognose di aiuti. Vittime della guerra tra la giunta e i ribelli, su cui ora si è accanita anche la natura. Troppe cose tutte insieme contro le quali, adesso, il popolo birmano potrebbe decidere di dire basta. Cominciando proprio dal governo di Naypyidaw.