Mimosa Martini, la ‘donna degli esteri’ del Tg5: “Vivevo con la valigia sempre pronta. Oggi faccio la traduttrice”
Mimosa Martini, storica inviata del Tg5: "L’unico desiderio non esaudito è stato quello di poter fare la corrispondente. Fino a un certo punto della mia vita ho lavorato bene, poi purtroppo non ho più potuto farlo come volevo"

Lontana dei riflettori, ma ancora riconosciuta dalla gente: “Mi fermano per strada per dirmi che ero brava a spiegare le questioni e che si fidavano di me. Parole che mi scaldano ogni volta il cuore”. Mimosa Martini è stata per quasi un trentennio la ‘donna degli esteri’, chiamata a raccontare per Mediaset eventi internazionali finiti nei libri di storia.
Classe 1961 e romana di nascita, la Martini frequentò la scuola francese dall’età di 4 anni fino alla maturità. “Sono perfettamente bilingue – confida a TvBlog – la mattina entravo in Francia superando il cancello dell’istituto e quando uscivo rientravo in Italia”.
Il sogno è stato sempre lo stesso: “Volevo fare la giornalista. Come ti dicevo, sono cresciuta in un ambiente internazionale. Avevo compagni di classe di tutte le culture e le religioni e la mia famiglia viaggiava molto. Mi piaceva scrivere e la mia dimensione ideale era quella di vedere e raccontare il mondo. Una volta diplomata mi domandai se fosse meglio proseguire gli studi in Francia o in Italia. Commisi l’errore di rimanere. Dico così perché in quegli anni le nostre università erano davvero una tragedia”.
Che facoltà scelse?
Mi iscrissi prima ad Economia. Feci tutti gli esami che mi piacevano ottenendo voti altissimi, poi quando passai ad altre materie entrai in crisi e mollai. A quel punto virai su Sociologia. Mi fermai che mi mancavano un solo esame e la tesi finale. Non mi laureai, ma nel frattempo avevo già trovato lavoro e avevo cominciato a scrivere.
Come iniziò?
Con collaborazioni esterne per Repubblica e Paese Sera. Contemporaneamente pubblicavo articoli per un giornale di turismo. Tuttavia, il primo contratto a 21 anni lo firmai con Radio 1. Condussi con Gianni Bisiach ‘Radio Anch’io’ per cinque anni, sempre con l’ansia che non mi confermassero. Era un bellissimo programma, intervenivano personaggi importantissimi. Ho ancora la rubrica telefonica cartacea con tutti i loro numeri annotati. C’erano pure quelli delle amanti, perché all’epoca non c’erano i cellulari e avevamo la necessità di rintracciarli ovunque fossero (ride, ndr).
Nel 1988 arrivò la chiamata del Tg3.
Ero convinta che sarei diventata una giornalista della carta stampata, ma per una serie di circostanze mi innamorai della televisione, che è un mondo molto più complesso. Il direttore Sandro Curzi veniva spesso ospite in radio e cominciai a tampinarlo. Mi ci vollero due anni. Fortunatamente si presentò l’occasione giusta: gli venne a mancare una persona e virò su di me.
Ci rimase per quasi quattro anni.
Sì, fino a tutto il 1991. Non ero iscritta ad alcun partito, né possedevo un padrino politico. Al massimo potevo definirmi ‘di area’, con vicinanza a sinistra. Il mio contratto era a termine e mi dedicavo a delle rubriche. Avendo interesse per gli esteri andai addirittura in Burkina Faso ad intervistare il presidente che aveva appena compiuto il colpo di Stato. Fu un’avventura pazzesca. Senza dimenticare i viaggi nell’allora Unione Sovietica.
Fece anche in tempo a raccontare la prima Guerra del Golfo.
Esatto. La seguii da Roma, venni messa alla redazione esteri al turno di notte e coordinai tutti gli inviati. Ero l’unica a conoscere bene le lingue e quel conflitto andava monitorato soprattutto sulla Cnn e sulla France Presse.
Come arrivò al Tg5?
Tutto il mio impegno per il Tg3 non mi venne riconosciuto e dopo la pausa estiva rimasi praticamente senza contratto. Curzi me ne propose uno nuovo, ma avrei dovuto firmarlo davanti ai sindacati Rai, accettando di rinunciare a quasi dieci anni di diritti acquisiti. Mi parve un’ingiustizia. Nonostante fossi stata lì tutti i giorni, avevo avuto un contratto di quattro collaborazioni al mese. Ero pronta a fare causa, però un avvocato mi spiegò che, pur spuntandola, avrei rischiato di essere trasferita in una sede periferica. Ero disperata. Non esisteva l’idea di poter approdare altrove e quando mi chiamò per la prima volta Enrico Mentana rifiutai l’offerta.
Non si fidava del nuovo progetto?
Per me la Rai era un punto di arrivo, un’azienda enorme. Mentana mi aveva contattato perché conosceva la mia situazione. Mi confidai con Curzi e, a sorpresa, mi consigliò di cogliere l’opportunità di corsa. Per me fu una coltellata. Mi decisi e andai al colloquio. In ballo c’era l’assunzione e per me che ero precaria da una vita, trentenne e con un mutuo acceso fu un treno da prendere.
Le venne subito offerta la redazione degli esteri?
Sì. Ma i miei primissimi servizi li realizzai già nel dicembre del 1991 per ‘Canale 5 News’. Il telegiornale sarebbe nato il 13 gennaio 1992 e prima di quella data seguii le ultime fasi che avrebbero portato al Trattato di Maastricht. Partii in treno con una delegazione dei Radicali che andava a protestare. Per il Tg5, invece, la prima trasferta ufficiale fu ad Helsinki per un vertice.
I primi mesi furono di assestamento, immagino.
Partimmo da zero. L’azienda non aveva alcuna cultura dell’informazione. Non c’erano corrispondenti dall’estero; ogni volta che accadeva qualcosa mi si chiedeva di raggiungere il posto interessato. Questa è stata la mia vita. Vivevo con una borsa e una valigia sempre pronte. Uscivo di casa e non sapevo dove sarei andata.
Il primo conflitto seguito sul posto quale fu?
Per il Tg3 avevo seguito la guerra tra Armenia e Azerbaigian. Mentre per il Tg5 la prima fu quella in Bosnia. Poi ne ho seguite tante altre, dall’Afghanistan all’Iraq, fino alla Libia. Nel 2011 raccontai le tensioni in Egitto e fu terrificante. Mi occupai della caduta di Mubarak senza operatore. Le riprese e gli stand up me li facevo da sola.
Ha affermato che le inviate di guerra “sanno dare qualcosa in più e hanno maggiore attenzione per i dettagli“.
Me lo disse Bernardo Valli dopo che ero stata ad Islamabad a colloquio con il mullah Abdul Salam Zaeef, che non mi guardò negli occhi per tutto il tempo. Avevo notato alcune particolarità, da come si vestiva al suo aspetto. Quello di Bernardo mi sembrò un bellissimo complimento.
Qual è la percezione del rischio e del pericolo di un inviato di guerra?
Ognuno vive il pericolo a modo suo. Nei miei viaggi ho visto purtroppo dei colleghi uccisi. La paura c’è, accidenti se c’è. Ma non deve paralizzarti e, per evitare che succedesse, mi sono sempre attaccata al mio ruolo. ‘Perché lo faccio?’, mi sono domandata ogni volta. E mi davo puntualmente la risposta: ‘Perché credo tanto nell’informazione’. Io sono una persona curiosa, ho bisogno di vedere con i miei occhi gli avvenimenti. Faccio la giornalista per questo, dunque rischio. A questo si aggiunge un ulteriore fattore, ossia che quando stai a lungo in un territorio di guerra, scomodo e pieno di difficoltà, ti abitui e abbassi la guardia. In genere chi muore è perché ha abbassato la guardia. E’ complesso non farlo. Infine, c’era un rituale che applicavo quando andavo a riposare la sera.
Ovvero?
Mi addormentavo il prima possibile. Se cominci a pensare e a chiederti perché sei lì è la fine.
E’ sposata?
No e non ho figli. Ho dedicato la mia vita a questo lavoro. Sai, un uomo ha sempre una donna a casa disposta ad aspettarlo. Al contrario, nessun uomo attende una donna che se ne sta in giro per il mondo.
Gliel’ho chiesto perché i tormenti e le preoccupazioni di chi una famiglia ce l’ha probabilmente sono maggiori.
Concordo. Ho fatto cose che nessuno avrebbe fatto. Quando mi trovavo in Pakistan incontrai Giovanna Botteri che mi raccontò che la figlia adolescente l’aveva chiamata pregandola di tornare in Italia. Le dissi di ascoltarla. Se avessi avuto un figlio avrei compiuto altre scelte, lo ammetto.
Il periodo più lungo lontana da casa di quanti giorni è stato?
Nel 2001 partii per New York all’indomani dall’attacco alle Torri Gemelle e, passate alcune settimane, Mentana mi annunciò che sarei dovuta andare in Pakistan per poi entrare a Kabul. Non passai dall’Italia, dove tornai solo alla vigilia di Natale. E fu un ritorno pesantissimo.
In che senso?
Vissi l’attentato alle Torri in maniera intensa, ne uscii provata. Oltre ai rischi, ad essere terribile era il senso di impotenza. Da lì venni successivamente catapultata in un Paese dove al ristorante il cameriere nemmeno ti guardava negli occhi durante le ordinazioni. Quando rientrai in Italia esplosi. Vidi le luminarie natalizie, gli addobbi in strada e la gente interessata solo a organizzare pranzi e a fare regali, mentre io avevo fatto la fame e rischiato la vita. Stavo vivendo la ‘sindrome del reduce’, ma a quei tempi nessuno ne parlava. Il momento più brutto fu quando sbottai con la mia migliore amica. ‘Voi occidentali pensate solo a mangiare’, le urlai. Ancora oggi me lo ricorda, scherzandoci su.
Quanto ci mise a guarire?
Dovetti prima rendermene conto, comunque in tutto 2-3 mesi. Vivevo come sospesa, non sapevo più cosa volevo, non stavo bene in Italia, ma non potevo nemmeno rimpiangere la vita nelle zone di guerra. Una situazione di disagio da cui uscii piano piano. Ad ogni modo, fu l’unica volta che mi capitò.
Alleggeriamo un po’: il suo capello corto divenne un tratto distintivo.
Nacque per pura praticità. Ho i capelli ricci e sono un disastro, soprattutto se non li curi quotidianamente. Per la vita che conducevo mi era impossibile, quindi cominciai a tentare altre strade. Senza contare che iniziai da giovane ad avere i capelli bianchi davanti. Dovevo tingerli e in quel modo risolvevo parzialmente il problema. Adesso non mi tingo più, ma li ho mantenuti comunque corti.
La sua esperienza al Tg5 si è conclusa nel 2014.
Mi spostarono all’agenzia News Mediaset, dove rimasi fino al 2019 quando me ne andai e mi misi in malattia. Il rapporto si è concluso definitivamente nel 2021. Non ne potevo più, ma non aggiungo altro.
Nel 2020 provò a rimettersi in pista pubblicando sui social il suo curriculum e dichiarando di cercare lavoro.
Fu una mossa in parte provocatoria. Della mia situazione nessuno sapeva niente e volevo comunicare di essere disponibile a nuovi impegni. Scrissi il post su Twitter, il social più frequentato dai giornalisti. Pensai che qualcuno si sarebbe potuto fare avanti, invece non ottenni alcun risultato. Anzi, la gente mi rispose che sarei dovuta andare a fare la nonna. Ci sono direttori di testate molto più grandi di me, alcuni giornalisti persino pensionati che continuano a lavorare. Eppure a loro non si permettono di dire di andare in pensione. Ad una donna sì.
Per un breve periodo partecipò a diversi talk.
Smisi quasi subito. Non ha senso andare in tv per esprimere un concetto per trenta secondi. Non mi interessa fare la bella statuina. Quindi ho deciso di reinventarmi.
Gliel’avrei chiesto io: oggi cosa fa?
Faccio la traduttrice letteraria. Traduco romanzi e saggi narrativi dal francese, dall’inglese e dallo spagnolo. Al contempo scrivo, sto completando un nuovo romanzo.
Ha rimpianti?
No, ho svolto il mio mestiere con gioia e ho fatto quello che sognavo. L’unico desiderio non esaudito è stato quello di poter fare la corrispondente, nel senso di vivere stabilmente all’estero. Ho fatto l’inviata stando a lungo in determinati luoghi, ma mai da residente. Fino a un certo punto della mia vita ho lavorato bene e ad alti livelli, poi purtroppo da un certo momento non ho più potuto farlo come volevo. Ammetto di essere stata spesso un problema per gli altri. Me ne sono resa conto a posteriori.
Ai giovani cosa si sente di consigliare?
A loro dico che questa è la mia esperienza. Non suggerirò mai di lasciare perdere, perché se da giovanissima, quando rompevo le scatole a destra e a manca, mi avessero detto di non seguire questa strada, non sarei mai arrivata da nessuna parte. Il lavoro me lo sono goduto, mi è piaciuto. Ho avuto periodi terribili, ma anche di grande felicità.