L’intervista più importante dell’anno (se alla musica ci tenete davvero)
Diciamolo chiaramente: in Italia, le eccellenze, spesso le pigliamo a pesci in faccia. Ripetiamolo, nel dubbio: in Italia, voler essere eccellenza spesso è un modo perfetto per rovinarsi la vita, e per avere meno di quello che si merita faticando però il triplo. Sapete soprattutto quando? Quando queste eccellenze sono così idiote e così ingenue… The post L’intervista più importante dell’anno (se alla musica ci tenete davvero) appeared first on Soundwall.

Diciamolo chiaramente: in Italia, le eccellenze, spesso le pigliamo a pesci in faccia. Ripetiamolo, nel dubbio: in Italia, voler essere eccellenza spesso è un modo perfetto per rovinarsi la vita, e per avere meno di quello che si merita faticando però il triplo. Sapete soprattutto quando? Quando queste eccellenze sono così idiote e così ingenue da lavorare prima di tutto credendo nella passione, nei valori, in quei criteri insomma che vanno al di là dell’arricchimento e del vantaggio personale, con tanto di self branding. In Italia ti perdonano tutto, tranne la mancanza di furbizia, di scaltrezza, di voglia di farsi prima di tutto i tornaconti propri. Se lavori per la cultura, sei una persona nobilissima ed ammirevole – per carità, questo nessuno te lo toglie – ma nessuno ha troppa voglia di darti una mano, di riconoscere i tuoi meriti.
Ecco. KLANG, la creatura dietro a cui sta in primis Cristiano Latini, è un’autentica eccellenza della scena musicale italiana. Lo è in un settore di nicchia, quello della ricerca più o meno elettronica, più o meno live, ma in questo settore ha avuto modo di organizzare dal 2018 ad oggi oltre 1.000 show. Il tutto tra festival, residenze artistiche, venue create apposta (dalla vita breve ma intensa), singoli concerti. Ma il tutto soprattutto in un campo dove più difficilmente ti puoi permettere di barare: devi avere una competenza sul campo reale, non puoi farti imboccare dalle agenzie, non basta insomma staccare gli assegni per sentirsi direttore artistico, anche perché è un settore così povero dove gli assegni sono magri, magrissimi. Non stacchi nulla. Ed è un settore dove il pubblico è molto esigente, sapientone: se provi a scegliere la via facile, ti bastona. Ma se scegli la via difficile, che è quello che questo stesso pubblico ti impone e pretende da te, spesso alla fine vieni lasciato da solo.
A parole vogliono tutti la cultura e la ricerca, in musica. Nei fatti, stanno a casa a guardare Netflix o spendono fior di quattrini per andare nei soliti posti e sentire i soliti artisti, trovando invece difficile spendere 10 euro per sentire qualcosa di nuovo, e/o con meno hype addosso. Vale per la scena commerciale, vale ahinoi anche per quella alternativa. È il momento di dirlo chiaro e forte (e su queste pagine non è la prima volta che lo sottolineiamo): spesso il mondo commerciale è meglio di quello “di qualità”, perché nel primo il pubblico è sì più superficiale ma comunque più pronto ad esserci e a supportare davvero, nei fatti, non solo a parole.
Se il mondo “alternativo” e di ricerca, elettronico e non solo, fosse reattivo come quello che si muove per Peggy Gou o Deborah De Luca, pur restando nicchia darebbe vita ad un ecosistema assolutamente sostenibile ed in salute. Invece, non è così. Invece, nel mondo della ricerca, della sperimentazione, dell’alternatività, del coraggio artistico si parla tanto, e quei pochi che fanno spesso sono dati per scontati, se non proprio abbandonati a sé. C’è stato proprio di recente un rant on line di Giampiero Stramaccia, direttore artistico e fondatore di quel Dancity che da qualche anno ha stretto un legame via via più forte sempre con Klang:
“Facciamo eventi belli, in location straordinarie, con artisti internazionali. Li facciamo con cura, con sacrificio, con amore. Ma i biglietti… no, quelli si comprano all’ultimo. O forse mai. Eppure a volte basterebbe un gesto semplice: comprare quel biglietto oggi. Non per noi, ma per far accadere tutto quello che tanti dicono di volere. Perché la cultura non vive di applausi dopo. Vive di fiducia prima.”
I biglietti in prevendita, con entusiasmo, li comprano ormai solo quelli che vanno agli eventi pop, ultra-commerciali e/o accompagnati dall’hype, mainstream o di nicchia ricercata che sia: ve ne siete accorti? Il mondo della ricerca e del coraggio artistico fa sempre più fatica, è sempre più bistrattato dai suoi stessi teorici fiancheggiatori, è sempre più dato per scontato, è sempre più preso sottogamba quando invece è proprio quello che più avrebbe bisogno dell’entusiasmo e dei gesti concreti di chi (a parole) lo segue e lo sostiene, mentre lancia i fischi dal loggione contro la Kraviz e contro Mochakk.
Fino a quando andrà avanti questa dinamica assurda, irritante, insensata?
Stiamo divagando? Stiamo divagando. Ma forse nemmeno troppo. Non la leggerete perché troppo lunga, non la leggerete perché non ci vedete subito della portineria e del gossip, non la leggerete perché è una intervista saggia ed equilibrata, non invece polemica e divisiva, non generatrice di litigi ed accuse “facili”; ma questa intervista che Cristiano Latini di KLANG ci ha fatto il piacere e l’onore di concederci – onore perché ci ha messo un impegno immenso per rispondere – sarebbe da considerare una lettura obbligatoria per chiunque, in Italia, creda ancora valga la pena collegare musica e cultura, suoni e ricerca, attivismo culturale ed impresa.
(tenetele d’occhio, le cose che fa KLANG, accidenti; ce n’è una fresca fresca in arrivo)
(e ascoltatevi prima di leggere questa torrenziale intervista – o anche dopo – questa bella playlist qui sotto che ne riassume l’anima sonora e il grande coraggio, la voglia di non arrendersi al “facile”)
Ovviamente la visione iniziale di KLANG, sospinta da un entusiasmo quasi irrazionale e basata su tutta una serie di assunti più genuinamente (e ingenuamente) di pancia che di analisi concreta della realtà, si è ben presto scontrata con un mondo assai più stratificato e complesso
Cristiano, proviamo a far balenare per un attimo il momento dei bilanci: come potremmo descrivere ad oggi la parabola dell’esperienza KLANG? Quali i suoi momenti migliori, quali quelli più difficili? E quale il suo stato di salute attuale?
Dunque, a onor del vero quando si ha a che fare con la “progettazione culturale”, se così possiamo (e vogliamo) definirla, immagino di parlare a nome di molti dicendo che il fatto di sedersi a tavolino per provare a tirare somme e fare bilanci sia una pratica volente o nolente pressoché quotidiana. Questo perché molte domande e molte criticità rimangono costantemente aperte, e non sempre l’evoluzione delle cose cui si assiste risulta coerente o univocamente intellegibile. In generale è molto difficile disegnare una parabola netta: molto spesso si tratta di percorsi tortuosi e tutt’altro che lineari. Ovviamente la visione iniziale di KLANG, sospinta da un entusiasmo quasi irrazionale e basata su tutta una serie di assunti più genuinamente (e ingenuamente) di pancia che di analisi concreta della realtà, si è ben presto scontrata con un mondo assai più stratificato e complesso. Molto spesso mi capita di ripensare al me stesso di una decina di anni fa, da un lato con estrema tenerezza, ma dall’altro anche con una massiccia dose di rimprovero critico. Puntare *tutto* sulla propria soggettivissima percezione della qualità artistica, pensando di renderla accessibile e attraente quasi esclusivamente grazie ad un presunto e ipotetico “oggettivo valore intrinseco”, è un qualcosa di veramente ma veramente troppo ingenuo, incompleto ed astratto perché possa essere efficace e funzionale. Sicuramente, è veramente troppo poco compatibile con la realtà che, almeno oggi, viviamo e ci circonda. Se poi aggiungiamo il fatto che, al di fuori di ogni intenzione di trasversalità, l’oggetto di tale operazione riguardi prevalentemente sonorità ed atmosfere non soltanto di nicchia ma in moltissimi casi letteralmente al di fuori “dell’idea stessa di musica” che la maggior parte del pubblico ha, il tutto si trasforma in qualcosa di veramente irreale ed utopistico. Ecco, diciamo che questa dicotomia tra idealizzata utopia e nuda realtà, è forse la chiave di lettura più a fuoco per descrivere ciò che è stata la dimensione embrionale (e anche di spazio fisico) di KLANG. Così come, penso, di moltissime altre realtà che abbiano intrapreso, in modo più o meno analogo, un viaggio similare e sugli stessi assunti di base. Diciamo che volendo provare a fare una fotografia per quanto possibile obiettiva, mi verrebbe da dire che adesso il progetto sia in una fase di “maturità”. Intesa non in senso di equilibrio e stabilità, quanto piuttosto in senso di estrema consapevolezza: consapevolezza di cosa KLANG sia, di cosa *voglia essere*, di cosa faccia e perché lo faccia, nonché, più in generale, del mondo tangibile in cui si collochi, con le sue dinamiche e peculiarità. Può forse apparire come un concetto banale, ma sono giunto alla piuttosto ferma conclusione che l’integrità e l’incorruttibilità della visione, siano e debbano essere la priorità assoluta, abbracciando ogni conseguenza di questa scelta.
Nel corso degli anni ho perso ampie frange di “fedelissimi” proprio perché si aspettavano qualcosa di molto specifico da KLANG, anche se, a mio avviso, completamente fuori tempo massimo o totalmente slegato da una dimensione di contemporaneità. Come se i concetti di “sperimentazione” e “musica sperimentale” fossero una sorta di nomenclatura vuota, collegata esclusivamente a stilemi rigidi, imposti e specifici.
Nello specifico?
Nello specifico, oggi KLANG è una realtà curatoriale interamente consacrata alla ricerca dell’impossibile, alla valorizzazione dell’incomprensibile, allo scuotimento di orecchie e menti per dare una prospettiva completamente diversa su se stessi e sul mondo, in un percorso volto a scoprire la materia musicale oltre la materia musicale, alla ricerca di un mondo altro da sé e forse dalla realtà stessa. Non esistono certezze se non quella di cercare di valicare i limiti, sia percettivi che di plausibilità, di ciò che significhi “musica” e “musica dal vivo”. Lo scopo ultimo è quello di disegnare mondi che rappresentino una discontinuità profonda con ciò che li circonda, ma che abbiano anche un’imprescindibile congruenza con il momento storico in cui si collochino. Ecco, sì: discontinuità e congruenza. Ovviamente questa è l’aspirazione, poi chissà… Però diciamo che in assoluto lo sguardo non è mai rivolto a ciò che “rassicuri”, ma a ciò che sorprenda e possa accendere nuovi percorsi di immaginazione. Magari anche a qualcosa che sconvolga. E tutto questo, inutile negarlo, porta con sé il fatto che proseguire su questa traiettoria, sia letteralmente una battaglia. E parliamo di una battaglia davvero difficilissima da combattere. È semplicemente estenuante. Ad ogni passo in avanti (o laterale, o più a fondo), ci si perdono intere fette di pubblico che non riescono più a riconoscersi nell’evoluzione delle proposte. Parlando di un fattore puramente progettuale ed economico, decidere di non compromettere in alcun modo una visione del genere, significa che nella messa a terra di ogni singolo progetto, *la sostenibilità non sia un presupposto di base, ma un obiettivo*. Obiettivo spesso anche piuttosto arduo da raggiungere. Ma in fondo va anche bene così. Fino a qualche anno fa non riuscivo a farmene una ragione, e ammetto che forse di tanto in tanto è ancora così. Ma sta di fatto che prima di ogni velleità professionale, ho (più o meno) accettato che si tratti di una vocazione Facendo un discorso meno ideologico e più terra terra: è proprio una cosa che non posso evitare. Ascolto, scopro e mi innamoro perdutamente su base settimanale di così tante cose diverse, assurde, dense, impensabili e sconosciute, che il bisogno di trovare modi per condividerle, “restituendo” la bellezza che esperisco su scala più ampia della mia sola stanza o delle sole persone a me più vicine, è una roba che diventa proprio urgente, insoppromibile, impellente. Lo percepisco come una sorta di preciso dovere morale. Attenzione, questo non vuol dire che si tratti esclusivamente di una perversione tutta mia, e non significa nemmeno essere cristallizzati o fossilizzarsi su di un universo specifico, impermeabilizzandosi a ogni cosa avvenga all’esterno. Anzi. Quella di interrogarmi sul presente e su ciò che ne parli effettivamente il linguaggio, che lo possa in qualche modo interpretare nel modo più onesto, spontaneo e diretto possibile, è quasi un’ossessione. Nel corso degli anni ho perso ampie frange di “fedelissimi” proprio perché si aspettavano qualcosa di molto specifico da KLANG, anche se, a mio avviso, completamente fuori tempo massimo o totalmente slegato da una dimensione di contemporaneità. Come se i concetti di “sperimentazione” e “musica sperimentale” fossero una sorta di nomenclatura vuota, collegata esclusivamente a stilemi rigidi, imposti e specifici. Non so, immagino si potrebbe lungamente argomentare la questione, ma a mio personalissimo avviso “sperimentale” è prima di tutto un aggettivo. E un aggettivo che presuppone un’attitudine: un approccio compositivo, oltre che un immenso esercizio di immaginazione e di affinamento di un punto di vista irrimediabilmente unico e personale. Uniformarsi alla familiarità rassicurante di canoni ingessati e cristallizzati che abbiano sulle spalle qualche decennio (anche solo uno o due) chiamandola “sperimentazione”, e soprattutto pretendere che questo possa ancora dialogare in modo interessante e rilevante con il presente risultandone espressione fresca, diretta e funzionale, è una trappola ideologica in cui molti rimangono invischiati ed è, ad esempio, una delle principali ragioni per cui è sempre assai complesso posizionare un progetto di KLANG con un pubblico specifico. Tralasciando le più o meno ovvie radici e i più lampanti riferimenti storici, KLANG è certamente nato nel brodo culturale delle sperimentazioni elettroniche che strizzavano l’occhio all’avant-clubbing (specialmente quello dalle tinte più concettuali, astratte, algide, scure, dadaiste e rumorose). Ambiente che ho lunghissimamente considerato la più prolifica ed autentica fucina di idee e intuizioni in grado di proiettare la musica verso nuovi e avvincenti lidi. Al momento credo/sento che questa propulsione si sia però esaurita su se stessa, rendendo anche quel macro-ambiente a suo modo vuoto, conservatore e noioso. È altrove, in mondi paralleli e linguaggi trasversali fatti di cortocircuiti inconsueti, che personalmente sto trovando linfa e scintille di sincerità e ispirazione. Ma mi rendo benissimo conto che questo, seguendo in modo naturale la repentina velocità con cui accade, possa risultare disorientante per molti. D’altra parte il presente va a una velocità impossibile, accelerando sempre di più e, com’è ovvio, con esso accelera anche l’arte che ne è figlia più o meno legittima. Io francamente ho abbandonato il filo di Arianna e ogni pallida velleità di averne uno. Seguo semplicemente il flusso di ciò che mi ispiri maggiormente, addentrandomi in meandri sempre più fitti del labirinto. La direzione presa in partenza, alla fine penso conti relativamente. E la coerenza penso sia nell’attitudine alla ricerca e all’esplorazione in sé. Tutto questo solamente per dire che non è mai esistito un momento migliore o uno più difficile per KLANG, perché essenzialmente è la sua stessa natura “radicale” e mutevole a renderlo una realtà complessa e instabile, precaria sempre e comunque per definizione ed intenti. Certo, conquistare la (più o meno cieca) fiducia del pubblico è un aspetto fondamentale su cui investire e spero di non deludere mai quella faticosamente ottenuta. Ma sta di fatto che, ad oggi, sono perfettamente consapevole di chiedere davvero moltissimo a chi mi segue, a volte quasi un atto di fede. Ma so anche che quell’atto di fede possa essere ripagato in modo più che proporzionale, qualora vi si approcciasse con l’apertura necessaria.
KLANG è certamente nato nel brodo culturale delle sperimentazioni elettroniche che strizzavano l’occhio all’avant-clubbing (specialmente quello dalle tinte più concettuali, astratte, algide, scure, dadaiste e rumorose). Ambiente che ho lunghissimamente considerato la più prolifica ed autentica fucina di idee e intuizioni in grado di proiettare la musica verso nuovi e avvincenti lidi. Al momento credo/sento che questa propulsione si sia però esaurita su se stessa, rendendo anche quel macro-ambiente a suo modo vuoto, conservatore e noioso
Quali sono ad oggi le cose che sei più orgoglioso di aver organizzato? Sui motivi – siano essi musicali o non solo musicali – hai carta bianca.
Come ti dicevo, volente o nolente i bilanci sono all’ordine del giorno, e anche questo aspetto chiaramente non ne è esente. Diciamo che il mio approccio di curatela è veramente molto istintuale, ogni cosa risponde in modo abbastanza fedele all’esigenza percepita in un momento specifico. Però è anche vero che questa cosa penso di averla davvero molto affinata nel tempo. Al momento ogni progetto è sì istintuale e intimamente collegato al momento in cui prende vita (anche solo sulla carta), ma nello stesso tempo credo sia molto meno “impulsivo” e/o “fine a se stesso” che in passato. Ho capito che dietro ogni singolo e specifico artista che avrei voglia di invitare, in realtà mi piace costruire un vero e proprio immaginario. Non si tratta più di un discorso meramente “asettico”, fatto della scelta di un contenuto calato dall’alto nella dimensione X in cui ci troviamo a lavorare: il ragionamento e la progettazione, adesso, sono imprescindibilmente dipendenti dal contesto spaziotemporale in cui quella determinata cosa avvenga, e la parte che più mi stimola e dà soddisfazione, è proprio quella di andare a ideare, plasmare e confezionare un immaginario per essi e intorno ad essi. Andare, cioè, a scrivere e raccontare una vera e propria storia, i cui personaggi e attori principali siano ovviamente gli artisti, ma l’atto performativo dei quali sia parte di una visione narrativa più ampia, in uno scenario che possa valorizzare la loro essenza come parte di un quadro d’insieme su più larga scala. In questo senso, è difficile dirti quali siano i progetti che mi rendano più orgoglioso, perché a tutti gli effetti ogni cosa ha un po’ un senso tutto suo. E nello stesso tempo, ogni singola cosa è stata in qualche modo propedeutica al resto. È veramente un discorso fatto di mille sfumature, che magari percepisco solo io, ma che per me sono parte essenziale di un percorso d’insieme. Certamente potrei dirti che a un certo punto hanno iniziato pian piano a “crollare” alcuni confini che erano del tutto fittizi e che mi imponevo da solo, senza una particolare ragione. Non so, inizialmente c’erano degli artisti che per timore reverenziale mi sentivo quasi “indegno” di chiamare, o delle idee progettuali che ritenevo troppo assurde o ambiziose per poter essere realizzate. Ma poi alla fine ti rendi conto che determinati limiti sono veramente un po’ fasulli. E così magari inizi a “fare”. Al massimo saranno le circostanze a rendere quella determinata idea non fattibile/realizzabile. Ma insomma, con un minimo di razionalità e, ovviamente, man mano che si accumula esperienza, ci si rende conto che non esistono vere e proprie “barriere”. Poi è chiaro, i limiti ci sono sempre e sono prevalentemente (se non esclusivamente) economici e produttivi. Ma nella dimensione in cui mi muovo e in cui sono contento di muovermi, bene o male c’è sempre un discreto possibilismo di massima. Almeno in termini assoluti. Di certo ci sono stati degli “snodi fondamentali”, come ad esempio la prima volta che mi sono detto “Ma alla fine perché no?”, e mi sono concesso di chiamare il nostro primo “grande artista internazionale”, che è stata la compianta Mira Calix. Ma anche la prima volta che ho deciso di metter su un piccolo festival subito dopo la pandemia, ovvero “Sturm und Klang” (che poi ha avuto quasi tre edizioni in una stessa stagione). Certo, se dovessi guardarmi indietro e decretare quale sia stato il progetto più a fuoco di tutta l’esperienza KLANG, forse sarebbe, per molteplici motivi, il festival espanso “KLANG: PANGEA” a cavallo della stagione 2023-2024 (di cui parlò proprio anche Soundwall, cogliendone il potenziale). L’idea era quella di mappare la scena sperimentale dei singoli paesi del mondo, cercando di dare uno spaccato peculiare e allo stesso tempo universale dell’arte sonora contemporanea, celebrando la diversità e la territorialità come elemento prezioso della specie umana nella sua interezza. Un concept talmente semplice da essere, almeno per me, veramente potente e bellissimo. Ovviamente il progetto, in tutta la sua complessità pratica, era possibile e fattibile esclusivamente perché il locale in cui ha avuto luogo mi aveva chiesto di lavorare su un arco temporale abbastanza lungo, mettendomi a disposizione un budget che potesse interamente coprire i costi, con lo scopo di intraprendere un’operazione di branding, nonché di posizionamento in ambito culturale dello spazio. Specifico l’obiettivo dichiarato a monte e per il quale sono stato contattato e ingaggiato, per sottolineare che non si trattasse di un lavoro di natura prevalentemente economica o lucrativa. Il problema è che, come purtroppo spesso accade, ignorando ogni impegno preso e rimangiando ogni parola data, il locale in questione da un certo punto in poi non ha pagato più niente e nessuno, artisti compresi. Oltretutto schernendo e insultando chiunque con un atteggiamento veramente disarmante, per poi direttamente ignorare in toto ogni ragionevole richiesta di tenere fede agli impegni professionali e contrattuali presi. Insomma, un esempio abbastanza lampante e uno dei motivi principali per cui risulti così tanto complicato realizzare iniziative di questa tipologia.
Il locale in cui ha il festival KLANG: PANGEA avuto luogo mi aveva chiesto di lavorare su un arco temporale abbastanza lungo, mettendomi a disposizione un budget che potesse interamente coprire i costi, con lo scopo di intraprendere un’operazione di branding, nonché di posizionamento in ambito culturale dello spazio. Il problema è che, come purtroppo spesso accade, ignorando ogni impegno preso e rimangiando ogni parola data, il locale in questione da un certo punto in poi non ha pagato più niente e nessuno, artisti compresi
Ma sei riuscito a tutelarti in qualche modo?
Non è stato nemmeno possibile mettere in piedi un’azione legale, dal momento che sarebbe stata più dispendiosa di quanto effettivamente si sarebbe potuto concretizzare. Quindi l’esperienza di per sé più strutturata e a mio avviso interessante che sia riuscito a sviluppare, si è tramutata al contempo nella più disastrosa immaginabile. Fortunatamente gli artisti e i loro management hanno capito la situazione e che in quanto KLANG, io sia stato il primo ad essere stato imbrogliato per migliaia e migliaia di euro. Nella rassegnazione e frustrazione generali, se non altro, non è stata compromessa la mia immagine, e la mia buona fede non è stata fortunatamente messa in discussione. Anche se ovviamente la mortificazione, l’impotenza, la vergogna e la frustrazione, oltre a più di sei mesi di lavoro letteralmente buttati al vento, nonché le difficoltà economiche che tutto questo abbia causato a me e agli artisti, sono un qualcosa che non si cancella e con cui faccio tutt’ora i conti. Questo per dire che purtroppo anche la mancanza di serietà e, soprattutto, di *onestà* di moltissimi attori del settore, a tutti i livelli, molto spesso affossa di per sé ogni possibilità e strozza ogni entusiasmo di costruire cose belle. Piccole-grandi tragedie a parte, è solo un eclatante esempio di quanto, come ti dicevo prima, purtroppo sia veramente tutto una battaglia, da ogni punto di vista.
Credo che il mio ruolo non sia quello di allestire produzioni mastodontiche su scala decennale e portare grandi e famosi headliner, comprando all’ingrosso un prodotto già conosciuto e di successo, per rivenderlo al dettaglio ad un pubblico relativamente ampio che già sappia di volerlo acquistare. Perché sì, anche nelle nicchie di sperimentazione i meccanismi sono esattamente gli stessi
Ora è arrivato il momento di parlare di un’altra partnership, ormai consolidata e – non mi sorprende – evidentemente poggiata su basi più oneste, serie e rispettose: come è nata la collaborazione con Dancity, un festival a cui qua a Soundwall si vuole molto bene?*
Diciamo che è stata una cosa veramente molto naturale. Qualche anno fa, quando ho iniziato ad avvicinarmi ad un certo modo di approcciare l’argomento musica, ero alla costante ricerca di situazioni in cui potessi nutrirmi avidamente di nuovi stimoli ed espandere le mie prospettive di ascolto. In Italia iniziavano già i primi focolai di quello che poi sarebbe stato, ma di realtà che offrissero anche sonorità un pochino più ricercate e “ardite”, in quel preciso momento, non è che ce ne fossero poi così tante. E così sono incappato in Dancity (e in quello che a tutti gli effetti era il concetto di “boutique festival” ante-litteram), innamorandomene. Mi sono innamorato di Foligno e dell’Umbria perché erano la casa di Dancity, e di Dancity perché aveva luogo a Foligno e in Umbria. Ed è andata a finire che credo sia a tutt’oggi il festival a cui io abbia partecipato più volte in assoluto. Dovrebbero essere 10 edizioni, se la memoria non mi inganna. Anche quando le mie traiettorie sonore si sono evolute in direzioni leggermente diverse, c’è sempre stata una comunione di visioni e di intenti, percorsi in ogni caso compatibili e in sintonia. Senza contare che, negli anni, è nata una sincera amicizia con Giampiero, Roberto, Sara e con tutto il team. In generale, Dancity è un piccola bomboniera, una dimensione quasi intima. Si sta bene, senza l’ambizione forzosa dell’evento megagalattico: è un festival sincero. Fatto sta che nel 2021 ho ospitato con estremo piacere la preview dell’edizione Winter in quello che fu KLANG come spazio fisico e, in seguito, è venuto davvero piuttosto spontaneo che le strade si incrociassero in una collaborazione solida e duratura. Al momento, incluso il prossimo Dancity Summer Festival 2025 (che avrà luogo dal 20 al 22 giugno), sono già quattro le edizioni in cui come KLANG abbiamo una nostra proposta in cartellone, che consiste quasi in un “micro-festival nel festival”. Nello specifico, mi interrogo sempre su cosa possa effettivamente costituire un valore aggiunto ai già squisiti cartelloni, confezionando un qualcosa che sia coerente con il quadro d’insieme, ma che rispecchi anche inconfondibilmente l’identità specifica di KLANG. In questa edizione, ad esempio, abbiamo voluto lavorare di valorizzazione dello spazio naturale in cui il festival prenderà vita, ovvero i vigneti di Cantina Raina in provincia di Montefalco. Giocando sull’immagine di questo luogo, ho pensato di sviluppare un piccolo scrigno che definirei “hyper-fiabesco”, a cavallo fra una spiritualità stregonesca post-urbana e una forma canzone dalle tinte ancestrali. Sabato 21 giugno ci saranno infatti le performance “Muérdago” di Adelaida (ES), “PLEASE COME TO ME” di Masma Dream World (US) e infine “Cryptid” di Aja Ireland (UK) – tutte in premiere nazionale. Ci divertiva sfruttare l’ambientazione, suggestiva e bucolica di per sé, per cercare di dipingere uno scenario dall’atmosfera fra l’onirico e il surreale, proponendo il lavoro di tre artistə che, ciascunə a suo modo, nell’ultimo anno mi hanno veramente rapito e conquistato. Sono davvero molto soddisfatto e ammetto di non vedere l’ora!
(Il logo di KLANG; continua sotto)
“Gemellaggio “ con Dancity a parte, quali saranno le prossime mosse di Klang?
Purtroppo, anche sulla base di esperienze scottanti come quella precedentemente raccontata, l’entusiasmo e la voglia di fare si sono gradualmente ridimensionati in favore di una più ragionevole “prudenza”. Questo purtroppo è nemico di una progettualità strutturata e a lungo termine, anche se mi piacerebbe davvero tantissimo poter ragionare in tal senso. Al momento per KLANG è veramente difficile poter lavorare oltre l’arco di una singola stagione, e molto spesso i tempi sono sensibilmente più stretti e rocamboleschi. La maggior parte dei progetti nasce in modo estemporaneo, dall’oggi al domani, con deadline assurde e in condizioni che non definirei propriamente favorevoli (per usare un eufemismo). Ma probabilmente fa parte del gioco, specialmente tornando al discorso di “integrità” di cui parlavo prima. Si lavora su progetti di scala necessariamente piccola o piccolissima, e questo porta con sé un cospicuo bagaglio di conseguenze, nel bene e nel male. Una di queste è certamente la pressoché totale impossibilità di strutturare programmi concreti sulla lunga distanza. Nel tentativo di attivare percorsi dal respiro un pochino più ampio e lungimirante, un po’ com’è accaduto con Dancity, ho anche lungamente tentato di dar vita ad una sorta di “network” fra le varie realtà italiane (ma anche solamente romane) dallo “spirito affine” a KLANG, sia per intenzioni che per visione. Purtroppo, oltre agli attestati di stima e rispetto reciproci, con il tempo ho capito che ogni situazione è veramente troppo peculiare e troppo in balìa di dinamiche delicate ed estremamente specifiche per poter ragionare in senso realmente collaborativo/cumulativo. Forse ci arriveremo, ma non è ancora giunto quel momento.
No, eh?
Queste sono tutte osservazioni dettate chiaramente dall’esperienza maturata negli anni e dai vicoli ciechi già imboccati e sperimentati. Guardando al passato, c’è stato un tempo in cui ero molto focalizzato sull’idea di crescita: più progetti, più grandi, più artisti, più grandi, ecc. Rendere tutto più strutturato e allo stesso tempo più dinamico. In realtà al momento, avendo chiarito con me stesso quali siano le priorità di KLANG e, a mio avviso, il suo stesso senso di esistere, ho perlopiù perso interesse e abbandonato le velleità espansionistiche. A velleità espansionistiche corrispondono politiche espansionistiche e operazioni precise, e non penso sarebbero cose che assomiglierebbero a KLANG. Questo perché se “crescere”, con tutte le sue implicazioni in positivo e in negativo, diventasse un obiettivo prioritario, ciò significherebbe necessariamente snaturare l’elemento a mio avviso centrale: vorrebbe cioè dire perdere quell’assoluta libertà di immaginazione e di scelta che credo sia il fulcro e il cardine di ciò che facciamo e, soprattutto, che *vogliamo* fare. Bisognerebbe switchare verso una gestione del lavoro in ottica di inserimento e contestualizzazione in un mercato, anziché di divulgazione e condivisione per il puro amore di divulgazione e condivisione. Può sembrare una frase banale o tipo “l’uva è acerba”, ma ci credo davvero profondamente.
(Una foto di Cristiano; continua sotto)
Insomma, sintetizzando: a ciascuno il suo. Ciascuno si scelga il suo campo d’azione, la sua vocazione.
Credo che il mio ruolo non sia quello di allestire produzioni mastodontiche su scala decennale e portare grandi e famosi headliner, comprando all’ingrosso un prodotto già conosciuto e di successo, per rivenderlo al dettaglio ad un pubblico relativamente ampio che già sappia di volerlo acquistare. Perché sì, anche nelle nicchie di sperimentazione i meccanismi sono esattamente gli stessi (se non addirittura più estremi, data la più o meno oggettiva mancanza di immediatezza a livello di ascolto e fruizione). Credo fermamente che il mio ruolo sia quello di scovare piccole perle fuori dai radar convenzionali, e provare a valorizzarle disegnandoci intorno il giusto contesto e costruendoci la giusta narrazione. Sono assolutamente sereno nel dire che questo non mi porterà mai a rendere KLANG una realtà da migliaia e migliaia di persone o da fatturati stellari, ma è esattamente ciò che trovo onesto (e importante) fare ed essere. Poi certo: poter contare anche solo su una progettualità a medio-termine, così come poter crescere quel tanto che basti per garantire una sostenibilità solida e duratura nel tempo, sarebbero traguardi che renderebbero tutto un pochino meno faticoso e logorante. E ovviamente farò tutto quanto in mio potere per cercare di raggiungerli. Ma insomma, se “passione” viene da “patìre” una ragione, dopotutto, ci sarà. Io alla fine sono abbastanza contento di riuscire a portare avanti le cose anche in questo modo, cercando di essere quanto più dedicato e professionale possibile, in una dimensione e ad un livello che “professionali” non sono, nè probabilmente potrebbero essere. Però, ecco, le prossime mosse in realtà non le conosco bene nemmeno io. Ho decine e decine di idee abbozzate in testa, come più o meno sempre accade. Ma fra l’idea astratta in sé e la sua messa a terra, purtroppo la strada è sempre molto molto molto lunga e intricata. Per il momento so che chiuderemo la stagione in bellezza con il già citato stage all’interno di Dancity Festival. Il 10 maggio, invece, avremo l’evento conclusivo di “Klang: Diorama”, una micro-rassegna prodotta e ospitata da Liminal Space e incentrata sull’idea della trasfigurazione dei percorsi di musica “istituzionale-accademica”, attraverso l’innesto e la sovrapposizione di grammatiche totalmente incoerenti e trasversali. Ci saranno il set ibrido di EDD e, soprattutto, la performance della violoncellista e compositrice americana MIZU, che sono veramente felicissimo di essere riuscito ad invitare. Nello stesso tempo è confermato un nostro piccolo spazio, come lo scorso anno, all’interno del contenitore ULTRA REf di Romaeuropa Festival il prossimo Settembre, in cui si avvicenderanno gli Érotìq (progetto romano giovanissimo e freschissimo che osservo da un po’ di tempo con sincera curiosità, e su cui mi sento di riporre molta fiducia), e quella che al momento è in assoluto una fra i miei artisti italiani preferiti, Sara Persico.
Molta dell’attenzione riposta su una città come Berlino (primo luogo che immagino venga in mente), ad esempio, è a mio avviso distorta dal fatto che a Berlino ci vivano una quantità spropositata di addetti ai lavori. Non parliamo quindi di “pubblico” in quanto tale, spontaneo e incondizionato, quanto di un circuito essenzialmente chiuso
Proviamo a dare uno sguardo all’estero: il pubblico fuori dall’Italia, per quanto riguarda le nicchie soprattutto quelle in cui ti muovi tu, com’è? Più numeroso ed attento, rispetto a quello che accade da noi?
Questa è una tematica su cui mi capita molto spesso di confrontarmi, con tante persone diverse e a vari livelli. Quando se ne parla, la percezione generica che emerge è che sì, quasi tutto il resto d’Europa (e del mondo) magari non sia un vero e proprio eden, ma che le condizioni complessive siano sensibilmente migliori. In tutta onestà temo che sia però una percezione dettata più che altro dalla nostra voglia (più o meno consapevole) di idealizzare altri luoghi: dalla speranza relativamente verosimile che da qualche parte esista effettivamente una dimensione parallela e favorevole alle nostre esigenze. Ma insomma, anche e soprattutto parlando con chi in altri luoghi poi ci vive e lavora, credo ci sia molto meno oro di quello che luccichi visto da qui. La verità con cui credo sia necessario fare i conti, è che parliamo di territori musicali “difficili”. E parliamo di “difficili” in un mondo e un tempo in cui, forse come mai prima d’ora, la domanda è pressoché univocamente di facilità e immediatezza (con quasi automatica esclusione di tutto ciò che sia anche solo lievemente più complesso). Quindi secondo me un pochino è vero che fuori dall’Italia ci sia un pubblico più numeroso ed attento, ma fino a un certo punto. Molta dell’attenzione riposta in tal senso su una città come Berlino (primo luogo che immagino venga in mente), ad esempio, è a mio avviso distorta dal fatto che a Berlino ci vivano una quantità spropositata di addetti ai lavori. Non parliamo quindi di “pubblico” in quanto tale, spontaneo e incondizionato, quanto di un circuito essenzialmente chiuso. Parliamo, cioè, di una visione filtrata e polarizzata dal prisma di ciò che vogliamo vedere, in un miraggio che continua ad attirare vorticosamente persone, in nome dell’esistenza di una scena che poi, allo stato dei fatti, è molto più fragile ed esigua di quanto possa sembrare. Certo, solo a voler parlare di festival e solo a volerne citare alcuni, a Berlino ci sono il Berlin Atonal, il CTM, c’era l’A L’ARME!… Ma prendendo ad esempio anche solo l’esperienza di quest’ultimo, non appena i fondi pubblici ad esso destinati sono stati ridotti, il progetto è collassato su se stesso e ha dovuto, purtroppo, interrompersi. Al di là di altre riflessioni e facili speculazioni, questo significa che non esiste in ogni caso un pubblico sufficiente a garantire la buona salute e la stabilità di un format di questa tipologia. Se è davvero esistito un momento in cui possano esserci stati un fermento e una spinta propulsiva reali, purtroppo è ormai passato. Probabilmente fagocitato e digerito dall’ecosistema tossico di un clubbing via via sempre più bidimensionale, asettico e sterile, caratterizzato da una visione di sé -e un branding- narcisista e polveroso. Poi è chiaro, l’environment in cui si nasce/cresce/vive conta tantissimo nello sviluppo della curiosità attiva nei confronti della fruizione culturale e, quindi, nella costruzione ed alimentazione di un pubblico. E insomma, da queste parti non brilliamo certo per la valorizzazione e l’incremento dei tessuti e dei focolai culturali. È evidente. Il discorso chiaramente è ampissimo. Temo sia veramente troppo semplicistico parlare in modo generico di Italia vs resto del mondo. Ci sono di mezzo caratteristiche specifiche e morfologie peculiari, politiche, investimenti, spazi, opportunità e, in generale, l’approccio proprio strutturale alla questione in sé. Nonché il modo in cui tutte queste cose intersechino fra loro. Ma di fatto, se non difendiamo e nutriamo l’idea che la cultura sia parte sostanziale ed integrante della vita delle persone, è difficile che poi le persone vadano alla ricerca di cultura. Intendo proprio nel senso più ampio possibile. Il tutto affoga inesorabilmente risucchiato nel pozzo del mero intrattenimento, esclusivamente a scopo evasivo, e si avvia il circolo vizioso. Forse anche per alcuni aspetti intrinseci al nostro essere italiani, siamo decisamente fra i più impermeabili e fra i meno virtuosi in tal senso, questo purtroppo sì.
Penso che in realtà il giornalismo abbia un ruolo (e una responsabilità) più che mai fondamentali. Cercare di mettere in risalto ciò che si ritiene meritevole, nel tentativo di farlo emergere anche solo di un pelo dall’abisso dell’indifferenza da scrolling/ascolto passivi, penso sia un preciso dovere etico di chiunque creda che la musica non sia alla stregua di un qualsiasi altro prodotto di consumo, da dare in pasto a una massa di consumatori inermi
Una domanda che non c’entra, ma c’entra: qual è il ruolo oggi del giornalismo musicale? Ha ancora un’importanza, un’influenza, o è diventato progressivamente irrilevante?
Bella domanda, me lo chiedo spesso. E non sono mai riuscito a darmi una vera risposta, ammesso ne possa esistere una o, quantomeno, una sola. Idealmente mi verrebbe da pensare che in un mondo in cui ognuno di noi ha costantemente a portata di mano pressoché tutto lo scibile umano, musicale e non solo, in modalità pressoché gratuita e con la massima accessibilità, l’idea di una “guida” o anche solo di una “consulenza” possa tutto sommato essere superflua e irrilevante. Una forma di verticalità ormai obsoleta. Si potrebbe assistere a tutti gli effetti alla concretizzazione di un’utopia democratica assoluta: chiunque potrebbe crearsi il proprio percorso ascoltando ciò che vuole quando vuole e come vuole, sviluppando ed alimentando un proprio giudizio critico privo di influenze di sorta, sincere o manipolatorie che siano. In uno scenario di questo tipo, è chiaro che l’assetto in cui ci si “affida” al suggerimento “di garanzia” di chi abbia tempo, mezzi e competenze per approfondire, analizzare e decodificare, inizierebbe pian piano a vacillare. Ma è piuttosto evidente che questa bellissima possibilità sia rimasta perlopiù virtuale ed astratta, e che si sia anzi generata una versione storpiata e distopica di questo concetto, innescando un tutt’altro che virtuoso “paradosso della scelta”. Anche a causa del fatto che, parallelamente ma contemporaneamente, la dimensione quantitativa di musica che viene prodotta e pubblicata ogni giorno, ha raggiunto livelli letteralmente impossibili. Chi dica di riuscire a rimanere costantemente ed esaustivamente aggiornato anche solo sulla nicchia meno prolifica esistente, mente. Penso che quindi, prima di tutto, sia necessario osservare con onestà un dato di fatto, preso in quanto tale: in linea generale, sempre più persone ascoltano sempre di più sempre meno cose. Potremmo disquisire molto a lungo sulle cause e gli itinerari che abbiano condotto a questo, sulle opportunità lisciate e su quanto sarebbe bello tentare di modificare questo paradigma. Ma la verità è che osservando in modo quanto più obiettivo possibile il mondo contemporaneo, l’inesorabile tendenza è questa, e si sta anzi accelerando sempre di più in questa direzione. Anche se non ci piace, penso che negarlo sia sciocco e anche piuttosto inconcludente.
Perfetto. E quindi?
Alla luce di questo, penso che in realtà il giornalismo abbia un ruolo (e una responsabilità) più che mai fondamentali. Cercare di mettere in risalto ciò che si ritiene meritevole, nel tentativo di farlo emergere anche solo di un pelo dall’abisso dell’indifferenza da scrolling/ascolto passivi, penso sia un preciso dovere etico di chiunque creda che la musica non sia alla stregua di un qualsiasi altro prodotto di consumo, da dare in pasto a una massa di consumatori inermi. La “stampa”, in tutte le sue più diverse declinazioni e incarnazioni a cui oggi potremmo attribuirla, ha ancora il potere (e, a mio avviso, il preciso compito) di convogliare un briciolo di attenzione, anche solo infinitesimale, sulle cose. D’altra parte il rischio chiaramente è elevatissimo, perché il giornalismo stesso può tramutarsi (e si sta tramutando) in un mero e piatto strumento di marketing, mosso da fini decisamente più prosaici e meno nobili rispetto alla deontologia e all’onestà intellettuale. L’attenzione del pubblico, misurata letteralmente in frazioni di secondo, è la merce più preziosa del nostro tempo, e avere la possibilità di venderne anche solo una piccolissima manciata, è un business davvero troppo ghiotto per rinnegarlo in favore di concetti più astratti e filosofici. Anzi, credo che molte operazioni di marketing musicale abbiano ottenuto il loro clamoroso successo proprio grazie alla passiva complicità della stampa, in un preciso tentativo di “nobilitazione e valorizzazione” di prodotti generalisti e confezionati a tavolino per essere generalisti, ma celebrati in modo lusinghiero da testate e firme il cui posizionamento sarebbe, in teoria, di natura completamente diversa. E questo scenario, tutt’altro che fantascientifico, porta a conseguenze ben più gravi di quanto potrebbe sembrare a un primo sguardo. Se iniziamo a confondere i confini fra cosa sia prodotto di intrattenimento fine a se stesso e cosa sia invece cultura, quello che va a svuotarsi e deteriorarsi è il concetto stesso di cultura. Perché al di là di ogni filosofia, “cultura” è ciò che viene percepito come tale. E se iniziamo a raccontare che un prodotto superficiale usa-e-getta, costruito a tavolino senza alcuna intenzione artistica esclusivamente per generare profitti, sia “cultura”, solamente perché qualcuno ha investito ingenti capitali in promozione affinché ciò avvenga, beh, diciamo che credo inizi ad essere un po’ problema. Ma non per KLANG, proprio per il genere umano. Volendo però mettersi per un attimo dall’altra parte del tavolo calandosi nei panni delle testate (e dei giornalisti), è chiaro che la piaga della scarsità della risorsa “attenzione”, non riguardi solamente l’universo musica, ma letteralmente ogni cosa. Da questa diversa prospettiva, diventa evidente che la sopravvivenza di interi ecosistemi dipenda interamente da quanto i singoli contenuti pubblicati siano in grado di intercettare una benché minima reazione da parte del pubblico, sempre più sovraccarico di infiniti altri contenuti. E lo sappiamo, siamo per la maggior parte inclini a fruire/leggere/guardare/ascoltare qualcosa che rinforzi le nostre conoscenze e convinzioni preesistenti, anziché qualcosa che ci dia nuove informazioni da processare.
Finalmente qualcuno che lo dice. E si mette nei panni “nostri”.
Eh. Quindi, semplicemente inseguendo la sostenibilità, l’unica alternativa alla messa in vendita del “lavoro giornalistico”, diventa la chimera del clickbait facilone (positivo o negativo che sia, un po’ come un gossip). Non so se ad oggi possa esistere qualcuno che, consapevolmente o meno, possa permettersi di fare giornalismo (a livello che non sia squisitamente amatoriale), operando totalmente scevro da questo tipo di riflessioni. E niente, non esiste soluzione e alla tua domanda non so davvero rispondere. Però quello del giornalista lo considero un lavoro per molti aspetti analogo a quello della progettazione culturale/produzione di eventi. Esistono le realtà che, giustissimamente, nella nomenclatura “impresa culturale” mettono in cima l’aspetto di “impresa” e leggermente in secondo piano quello “culturale”. E poi esistono i KLANG. Ecco, nello stesso modo penso che esistano i giornalisti “per mestiere” e i giornalisti “per vocazione” (…non necessariamente cose che debbano escludersi a vicenda, bada bene). Se dovessimo fare solamente ciò che abbia “un senso” e “un’influenza”, semplicemente non faremmo moltissime cose e contribuiremmo alla spirale discendente di appiattimento. Penso sia importante assurmerci il compito di fare quello che riteniamo “giusto e valido”, almeno qualche volta. Scrivere o parlare in modo sincero di qualcosa di cui si senta la voglia o l’esigenza semplicemente perché se ne avverta la voglia o l’esigenza, con l’intenzione di divulgarlo e ricavargli una seppur minuscola cassa di risonanza, o anche soltanto di darci una propria personale decifrazione, è un atto in difesa della bellezza di per sé. E onestamente lo ritengo importante in quanto tale, a prescindere dalla sua oggettiva rilevanza o efficacia.
Se iniziamo a raccontare che un prodotto superficiale usa-e-getta, costruito a tavolino senza alcuna intenzione artistica esclusivamente per generare profitti, sia “cultura”, solamente perché qualcuno ha investito ingenti capitali in promozione affinché ciò avvenga, beh, diciamo che credo inizi ad essere un po’ problema.
Qual è il concerto – o anche dj set – che ad oggi non hai ancora organizzato e che prima o poi vorresti assolutamente organizzare?
Come ti dicevo prima, a un certo punto ho sbloccato la barriera scema del timore reverenziale e, da quel momento in poi, devo dire che mi sono abbastanza tolto tutte le fisse che mi si presentavano. Bene o male ogni volta che mi è salito un impulso specifico, sono riuscito a fare in modo di incastrare le cose in modo tale da farle funzionare. Magari non subitissimo, ma alla fine l’ho portata a casa. Mettiamoci indubbiamente anche il fatto che, fortunatamente per me, sono poche le cose davvero “irraggiungibili” a cui mi appassiono morbosamente. Certo, l’intercontinentalità spesso costituisce un bel problema, almeno nell’immediato, perché bisogna attendere con pazienza che un determinato progetto riesca ad allestire un tour in questo nostro vecchio continente (ammesso che prima o poi si verifichino i presupposti per cui ciò possa accadere). Ma insomma, devo dire che anche da questo punto di vista, con una latenza più o meno ampia, sono quasi sempre riuscito a fare in modo che a un certo punto le cose avvenissero. Magari ho solo avuto un sacco di fortuna! Quindi, per non lasciarti proprio a bocca asciutta, ti nomino due cose che negli ultimi anni mi avrebbe veramente ispirato moltissimo portare, ma che, per varie ragioni, non sarebbe proprio fattibile o sostenibile poter fare. Almeno al netto di strane connessioni con grandi realtà che dovessero manifestarsi, chissà, non mettiamo limite alla provvidenza. Comunque: partiamo con il “super-progetto” OSMIUM, composto da Hildur Guðnadóttir, Sam Slater, James Ginzburg e Rully Shabara. Una delle cose più affascinanti viste negli ultimi anni. Ma andando un pochino più fuori dai ranghi, amerei poter portare l’opera contemporanea “HERESY” di Roger Doyle (ispirata alla vita di Giordano Bruno). Parliamo di una vera e propria opera, una forma ed un linguaggio che, al di fuori di questo brillante esempio, sarebbe a mio avviso davvero interessantissimo poter esplorare con uno sguardo tutto nuovo, verso una vera, propria ed attuale “Gesamtkunstwerk”.
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