L’Anti-Trump: la nuova geopolitica vaticana con Leone XIV
Quando l’allora priore generale dell’ordine agostiniano, padre Robert Francis Prevost, arrivò per la prima volta in Argentina nel 2004, volle innanzitutto visitare le comunità settentrionali di Salta, Tucumán e Catamarca, tra le più povere del Paese. Durante il viaggio, come ricordò anni dopo il suo autista di allora, il sacerdote spagnolo Pablo Hernando Moreno, entrambi […]

Quando l’allora priore generale dell’ordine agostiniano, padre Robert Francis Prevost, arrivò per la prima volta in Argentina nel 2004, volle innanzitutto visitare le comunità settentrionali di Salta, Tucumán e Catamarca, tra le più povere del Paese. Durante il viaggio, come ricordò anni dopo il suo autista di allora, il sacerdote spagnolo Pablo Hernando Moreno, entrambi pranzavano insieme sul ciglio della strada, dove l’attuale Papa Leone XIV si sedeva spesso a lavorare con il suo computer portatile. Nulla di sorprendente per un missionario come il prelato statunitense ma quella visita fu anche l’occasione per un primo incontro storico.
Era il 28 agosto di quello stesso anno, il giorno di Sant’Agostino, quando padre Prevost, arrivato poco prima a Buenos Aires per inaugurare la Biblioteca Agostiniana nel quartiere di Agronomia, celebrò una messa insieme all’allora arcivescovo della capitale, Jorge Mario Bergoglio, nella parrocchia di San Agustín nell’elegante quartiere di Recoleta, al numero 2560 di Avenida Las Heras. Allora nessuno poteva sospettare che un giorno entrambi sarebbero saliti sul trono di Pietro a Roma ma al termine della cerimonia, i due furono visti conversare in uno dei cortili laterali della cappella. «Fu un dialogo tra pari, senza titoli né formalità», ricordò anni dopo un catechista presente alla messa. «Parlammo della vera Chiesa, quella che cammina per le strade, non nei palazzi del potere».
Pace, ambiente, migranti
Una ricostruzione poi confermata dal primo pontefice statunitense pochi giorni prima di essere eletto Papa, che oggi suona come un manifesto per «una Chiesa povera, che cammina con i poveri, che serve i poveri». Un punto, aveva spiegato l’allora cardinale Prevost ricordando «la necessità di rinnovare sempre la Chiesa» continuando «quanto cominciato con il Concilio Vaticano II», su cui «non possiamo tornare indietro».
La prima impressione dal loggione di San Pietro, per la verità, era stata diversa: il ritorno della mozzetta rossa sulla talare bianca e della stola ricamata con croci dorate richiamavano più la liturgia di Benedetto XVI che la sobrietà di Papa Francesco. Ma era appunto solo un’impressione. Il suo discorso da vescovo di Roma, con “Pace” («disarmata e disarmante») come prima parola pronunciata dal Papa e persino le lingue utilizzate – italiano, spagnolo, latino ma non inglese –, si inserisce nel solco di Bergoglio e così tutti i suoi primi atti “politici”, a partire dalla conferma degli incarichi nella Curia fino alla scelta del nome, spiegata nel primo incontro non liturgico con i cardinali dopo l’elezione al soglio pontificio.
L’ispirazione arriva da Leone XIII, il primo papa eletto dopo l’unità d’Italia nel 1878 e autore dell’enciclica “Rerum Novarum” (1891), con cui quest’ultimo, ha spiegato Prevost, «affrontò la questione sociale nel contesto della prima grande rivoluzione industriale». «Oggi la Chiesa offre a tutti il suo patrimonio di dottrina sociale per rispondere a un’altra rivoluzione industriale e agli sviluppi dell’intelligenza artificiale», ha aggiunto Leone XIV. Senza dimenticare che il suo lontano predecessore fu anche l’autore dell’enciclica “Praeclara Gratulationis”, con cui nel 1894 papa Pecci si scagliava contro la “pace armata” della Belle Époque, che un ventennio dopo porterà al primo conflitto mondiale. Tutti riferimenti piuttosto attuali e già richiamati, insieme ad altri “tipici” del pontificato di Bergoglio nelle sue prime uscite da Papa.
«Mai più la guerra!», è stato l’accorato appello lanciato da Prevost nel suo primo Regina Caeli dopo l’elezione al sacro soglio, rivolto «ai grandi del mondo» nel ricordo della «immane tragedia della Seconda Guerra Mondiale» e «nell’odierno scenario drammatico di una terza guerra mondiale a pezzi», pensando soprattutto ai conflitti in Ucraina, nella Striscia di Gaza e tra India e Pakistan. Un invito rilanciato poi anche durante l’incontro nell’Aula Paolo VI con migliaia di cronisti internazionali: «Disarmiamo le parole e contribuiremo a disarmare la Terra», ha detto il Papa, invitando i giornalisti a diventare «operatori di pace» e a perseguire la verità «con amore», rifiutando la «guerra delle parole e delle immagini».
Questo non è l’unico tema su cui il Pontefice americano si presenta in piena continuità con il suo predecessore. «Il dominio umano sulla natura non deve diventare tirannico», disse nel novembre scorso l’allora cardinale Prevost, promuovendo un «rapporto di reciprocità» con l’ambiente, per la cui tutela ora bisogna passare «dalle parole ai fatti». Ma è sul tema dell’immigrazione che sembrano più forti sia le convergenze con Bergoglio che gli attriti con l’amministrazione del suo Paese natale, gli Stati Uniti.
Un papa “woke”?
Il convitato di pietra del Conclave è stato proprio il presidente degli Usa Donald Trump, che già aveva rubato la scena al funerale di Papa Francesco con il suo sorprendente incontro con il leader ucraino Volodymyr Zelensky nella Basilica di San Pietro e poi aveva scherzato sulla sua volontà di farsi eleggere pontefice, pubblicando un fotomontaggio sui social ufficiali della Casa bianca e confermando l’improbabile ambizione alla stampa. Trump aveva definito «un vero onore» l’elezione del «primo Papa americano», ma la scelta di Prevost ha scatenato l’ala più militante dei suoi sostenitori, che hanno subito cominciato a bollare Leone XIV come un «papa woke».
L’irruzione del trumpismo sulla scena vaticana, con la sua ala cattolica ultra-conservatrice guidata una volta dal non praticante Steve Bannon e ora dal neo-convertito vicepresidente J.D. Vance, non è una novità. Ma i toni non erano mai stati tanto accesi, almeno non così presto. In prima fila troviamo Laura Loomer, ex giornalista di Project Veritas, candidata repubblicana mai eletta al Congresso in Florida e ricevuta a inizio aprile alla Casa bianca da Donald Trump, convinto dall’attivista di estrema destra a licenziare i vertici della Nsa perché considerati «sleali» verso il presidente. In una serie di post al vetriolo su X ha attaccato Prevost definendolo «papa marxista woke, anti-Trump, anti-MAGA, pro-frontiere aperte e un marxista totale come Papa Francesco». Non è stata certo l’unica della galassia pro-Trump: dal conduttore di Newsmax Rob Schmitt, ai cospirazionisti Mike Cernovich e Jack Posobiec, all’influencer Vince Langman fino al fondatore di Turning Point Usa Charlie Kirk, in molti hanno criticato il pontefice.
I capi d’accusa sono sempre gli stessi: è contrario alle politiche anti-migranti della Casa bianca; è favorevole al controllo sulle armi; condivide le tesi anti-razziste del movimento nato dopo l’uccisione del cittadino afroamericano George Floyd da parte di un poliziotto bianco a Minneapolis; e ritiene «inammissibile» la pena di morte. Tutto questo emerge in effetti dal profilo X personale di Robert Francis Prevost. Come hanno fatto notare i suoi detrattori, nel 2015 il Papa ritwittò un’intervista del cardinale Timothy Dolan che definiva «problematica (…) la retorica anti-immigrazione di Donald Trump». Due anni dopo condivise prima un post che difendeva gli immigrati giunti illegalmente negli Usa da bambini, definiti “Dreamers”, e quindi rilanciò le dichiarazioni volte a limitare la diffusione delle armi del senatore democratico del Connecticut Chris Murphy dopo la strage di Las Vegas. Nel 2018 invece ripubblicò le parole del cardinale Blase J. Cupich: «Non c’è nulla di lontanamente cristiano, americano o moralmente difendibile in una politica che sottrae i bambini ai genitori e li rinchiude nelle gabbie». Nel 2020 infine condivise alcuni tweet in cui pregava per George Floyd e «per porre fine al razzismo».
Ma l’attacco “diretto” alla seconda amministrazione Trump è arrivato quest’anno. A febbraio Prevost ha ripreso il titolo di un articolo molto critico con il vicepresidente Usa: «JD Vance sbaglia: Gesù non ci chiede di dare una gerarchia al nostro amore per gli altri», in cui si dava una lezione al senatore convertitosi soltanto sei anni fa al cattolicesimo, spiegandogli perché la dottrina agostiniana dell’ordo amoris non possa essere usata per giustificare le politiche anti-migranti di Trump. L’altro invece è del 15 aprile ed è tuttora l’ultimo tweet del papa sul suo profilo personale: qui condanna apertamente la deportazione in una prigione di El Salvador di Kilmar Abrego Garcia, un immigrato espulso per un «errore amministrativo» e tuttora incarcerato. Insomma, come ha scritto Laura Loomer rivolgendosi ai seguaci dell’America First, «non c’è nulla da festeggiare» per il primo papa americano.
Fede repubblicana
Eppure Leone XIV non appare affatto un progressista. Papa Prevost, secondo i registri elettorali dello stato dell’Illinois, ha votato alle primarie repubblicane del 2012, 2014 e 2016, nonché alle elezioni politiche e presidenziali del 2012, 2014, 2018 e 2024. Nessuno sa in realtà come e per chi abbia espresso la propria preferenza né il fatto che abbia partecipato alle primarie repubblicane implica necessariamente una sua militanza nel Grand Old Party, visto che gli elettori dell’Illinois non sono registrati per partito. Le sue posizioni su alcuni temi cari ai più conservatori non stupiscono di certo.
Ovviamente contrario all’aborto, pur aumentando la presenza femminile nelle commissioni per la selezione episcopale durante il suo mandato di prefetto al dicastero per i Vescovi, Prevost si è sempre mostrato contrario all’ingresso delle donne negli ordini sacri. La «clericalizzazione delle donne», spiegò due anni fa, «non risolve necessariamente un problema ma potrebbe crearne di nuovi». A differenza di Bergoglio invece, ha espresso qualche riserva sulle aperture alla comunità Lgbtqi+, in particolare riguardo alla «simpatia per credenze e pratiche che contraddicono il Vangelo», come lo «stile di vita omosessuale» e le «famiglie alternative composte da partner dello stesso sesso e dai loro figli adottati». Più sfumata invece la sua posizione in merito alla dichiarazione pastorale “Fiducia supplicans” emanata da Papa Francesco nel dicembre 2023, che concede «la possibilità di benedire coppie dello stesso sesso», senza legittimarne lo status. Un documento mai approvato né respinto a pieno da Prevost. D’altronde lo spiegò lo stesso cardinale statunitense dieci anni dopo l’elezione del pontefice argentino: «Non tutti i miei incontri con Bergoglio sono stati in accordo».
Ma il problema con Trump potrebbe essere in primis personale. Prevost infatti è percepito come un pericoloso concorrente dall’ala cattolica e non solo del Maga: dall’8 maggio 2025 un altro americano è più famoso (e forse persino più potente) del presidente Usa.
I fronti aperti
Forse per questo l’inquilino della Casa bianca sceglie di travestirsi digitalmente da papa per guidare i suoi seguaci, ricordando prima del Conclave di aver ottenuto il maggior numero di voti dai cattolici americani contro Kamala Harris. D’altronde che il fronte americano fosse spaccato lo sapeva bene anche Bergoglio: malgrado i vescovi avessero mostrato da tempo la propria contrarietà alle politiche trumpiane in materia di immigrazione, a febbraio il pontefice sentì l’esigenza di inviare una lettera all’episcopato americano sottolineando come la parabola del Buon Samaritano insegni a costruire «una fraternità aperta a tutti, senza eccezioni», nemmeno per i migranti illegali. Una missiva per la cui redazione, visti i numerosi incarichi affidatigli dal Papa e la sua origine statunitense, il cardinale Prevost potrebbe aver avuto un ruolo. Ora però gli toccherà trovare un equilibrio tra l’intransigenza sui principi e la realtà della politica, visto che secondo alcuni sondaggi i cattolici statunitensi appoggiano a larga maggioranza le proposte di Trump. Sembra comunque di là da venire un incontro con l’inquilino della Casa bianca, almeno non negli Usa, dove non intende tornare «presto».
Potrebbe invece essere persino più vicino un vertice con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, tra i primi ad aver avuto un colloquio telefonico con il nuovo Papa, invitato finanche a Kiev. Sull’Ucraina infatti Prevost ha manifestato posizioni differenti rispetto a Bergoglio, definendo fin dall’inizio la guerra «una vera e propria invasione, di natura imperialista, in cui la Russia cerca di conquistare territorio per ragioni di potere». Più di tutti però saranno i suoi viaggi apostolici a definire le priorità del nuovo pontificato. Il primo, preparato già dal suo predecessore, potrebbe vederlo prossimamente a İznik, in Turchia, dove sorge l’antica Nicea, per i 1.700 anni del Concilio convocato e presieduto dall’imperatore Costantino, e poi chissà, un giorno, a Mosca o anche a Pechino, dove nessun pontefice è mai arrivato. D’altra parte se il suo predecessore veniva «quasi dalla fine del mondo», lui proviene dal centro del potere globale ma aspira a «camminare» con gli ultimi. Ovunque si trovino.