L’appello ai giovani di Pier Luigi Bersani su TPI: “Ribellarsi è giusto, anche da soli”
«Se c’è qualcosa che vi urta nel profondo, non state lì a pettinare le bambole. Non importa in quanti sarete, se in tanti o in pochi o da soli. Impegnatevi, e collegate l’impegno a un pensiero. Magari con l’aiuto di chi ha frequentato la politica per tutta una vita e dovrebbe dedicarsi a seminare e […]

«Se c’è qualcosa che vi urta nel profondo, non state lì a pettinare le bambole. Non importa in quanti sarete, se in tanti o in pochi o da soli. Impegnatevi, e collegate l’impegno a un pensiero. Magari con l’aiuto di chi ha frequentato la politica per tutta una vita e dovrebbe dedicarsi a seminare e non a raccogliere». La metafora è quella inconfondibile dell’onorevole Pierluigi Bersani, l’invito si trova nel libro che nasce da un viaggio lungo tutta l’Italia e dalle conversazioni avute, spesso davanti a una birra, con studenti, giovani militanti e attivisti. In “Chiedimi chi erano i Beatles. I giovani, la politica, la storia” (Rizzoli, 2025) l’ex segretario del Partito democratico, oggi semplice iscritto, si rende disponibile per «continuare quel dialogo» con meno metafore e più concretezza, per fornire ai giovani «un po’ di memoria e qualche approssimativa rima storica che possa essere utile a dare maggior consapevolezza del presente».
Cos’è questo libro? Un testamento politico?
«È un riassunto di un po’ di cose che ho imparato, fino a questo tratto della vita. Un lascito provvisorio».
E fino a questo momento, Lei che politico si sente di essere stato? Riesce a fare un confronto tra ieri e oggi?
«Da sempre un politico un po’ sui generis, nel senso che la politica non è mai stata tutto per me. E questo tratto ha costituito sempre una differenza rispetto ai tanti politici che ho incontrato. Ho sempre cercato di avere uno sguardo da fuori della politica».
Oggi cos’è cambiato quindi?
«Ho avuto la conferma di un’idea che avevo in testa. E cioè che si può fare politica anche in un altro modo. Quando qualche anno fa, mi chiedevano: “ma è vero che lei non si ricandida?”, e io dicevo: “si può fare politica anche in un altro modo”, mi guardavano con compatimento, come se scherzassi. Invece ho avuto conferma che rimettendosi in moto da volontario con uno sguardo più libero, una parola più libera e quindi anche forse con una maggiore autenticità percepita da chi ti ascolta e ti incontra, si possono creare spazi per discutere con tutti. Con linguaggi e temi che la gente percepisce più prossimi. In questi 50 anni di politica, sono sempre andato al supermercato, per dire. Non mi sono mai allontanato dalla realtà».
Anche i giovani, oggi, preferiscono la realtà ai sofismi della politica. Lo ha scritto anche lei, sembra si privilegi un po’ l’associazionismo a scapito dei partiti, si è diffuso un sentimento di disaffezione verso la politica…
«Questo è un punto importante, perché da un lato certifica che c’è una politica che tiene le porte chiuse, serrata nei suoi riti, e dall’altro obbliga a riflettere sul fatto che nel futuro i partiti non potranno essere i soli attori della politica. È un fatto moderno, strutturale. Sto cercando di guardare il futuro e mi fa arrabbiare quando mi danno del “passatista” dicendo queste cose. I partiti devono essere solidi, credibili, perché devono trasmettere il meccanismo della rappresentanza verso i ruoli delle decisioni, ma esiste una strutturale politicità nell’autonomia delle forme associative e sociali. Quindi, i partiti non devono arruolare un esponente di un’associazione, ma devono riconoscere quell’associazione e coinvolgerla in un dialogo».
È quello che avrebbe fatto, se ho capito bene, se fosse diventato Presidente del Consiglio.
«Assolutamente sì, non c’è dubbio. Questa è una cosa che mi manca tantissimo e per cui provo un gran rimpianto. Avrei fatto vedere lì, in Sala Verde (la sala che ospita gli incontri di Governo, nda), e poi davanti alle tv, questo tipo di autonomia della società, perché c’è dentro una politicità che va riconosciuta, che è ineliminabile. Sarà così nel futuro, un elemento di modernità che è insopprimibile e strutturale. Vorrei inoltre aggiungere che è ben curioso come la politica di tutto il mondo stia cercando dei capi che decidano tutto. Mentre, santa madre chiesa, che un capo lo ha sempre avuto, sta cercando dei modelli partecipativi. Non sarà che avendo 2000 anni alle spalle ha lo sguardo più avanti? Cerchiamo di aver fiducia che si andrà in quella direzione, non siamo alla fine della storia».
Difficile, oggi, immaginare una strada che possa convincere i giovani alla partecipazione. Se Lei oggi avesse vent’anni, si iscriverebbe al Pd o comunque a un partito?
«No. Se guardo l’oggi con gli occhi dei miei 20 anni, penso di no. Cosa farei? Mi metterei in una situazione collettiva che condividesse ideali, iniziative utili all’uguaglianza, dopodiché vorrei avere davanti un partito vero o per criticarlo o per “saltarci su”, un partito che avesse il “fisico” per provare a portare avanti qualche nostra istanza».
C’è un passaggio importante, in cui Lei scrive che attualmente, per i giovani soprattutto, “l’avversario è diventato inafferrabile, troppo lontano e multiforme”. Non le sembra che in realtà oggi, in Italia, esista un avversario concreto? Mi riferisco a quelle forze di governo che stanno iniziando, o hanno già iniziato, a reprimere quei diritti un tempo consolidati.
«Nel libro, nel certificare questo problema, dico anche che questo avversario si sta affacciando. Non si è ancora affacciato del tutto e non si è capito fino in fondo che mucca sia quella che abbiamo nel corridoio. Lo si inizia a capire però ogni giorno, così come accadde negli anni Sessanta in tutti i luoghi della vita. Nonostante possa riconoscere la gravità della situazione, resto fiducioso anche della possibilità di reazione della nuova generazione».
In un passaggio del libro, Lei ricorda che “la resistenza antifascista passò il testimone al mondo del lavoro, e si creò così una saldatura tra soggettività del lavoro e difesa e sviluppo della democrazia”. Questo tipo di passaggio è possibile anche oggi, dove il mondo del lavoro è così cambiato? Parliamo di un universo affollato di solitudini, dove il lavoratore, invece di organizzarsi per difendere o combattere per dei diritti universali, cerca di difendere degli interessi personalistici.
«È vero, questa è la direzione verso cui stiamo andando, ma ci fa capire che il mondo del lavoro è il punto di osservazione più vero, più immediato del fenomeno che si sta verificando, cioè di disarticolazione del tessuto sociale, indotto dal salto tecnologico, dalla globalizzazione e così via. Per questo propongo di riprendere il filo da lì. Come scrivo, la storia del lavoro in Italia è tutt’uno con la storia della democrazia, non possiamo fare a meno della soggettività del lavoro, ossia del lavoro inteso come soggetto e non come attività. Se vuoi un lavoro come soggetto, devi reagire alla sua disarticolazione. Come? Occorre una piattaforma che operi per una prospettiva di riunificazione, parlo di cose molto concrete: leggi sulla contrattazione, disboscamento dei canali della precarietà, parità salariale uomo-donna, formazione obbligatoria in tutti i contratti di lavoro. Per essere più chiaro, facciamo un esempio: se un ragazzo, occupato nel campo della logistica o dell’informazione, magari costretto a dei lavori semi-schiavistici e ricattato da pseudo-contratti, vede che in un contratto dei più rappresentativi si dice una cosa civile anche per lui, questo ragazzo riprende il segnale radar col sindacato, con la democrazia, con la politica, con la soggettività del lavoro. Ora, immaginare che questo possa avvenire senza una nuova pagina normativa e lasciando andare così le cose come vanno, è un’illusione».
Queste cose si decidono in luoghi come il Parlamento, sempre più privi di potere grazie al frequente ricorso alla decretazione d’urgenza.
«È così, e qui c’è la politica. Sto parlando di stagliare un progetto di alternativa fatto di messaggi molto operativi e concreti e che sia affidato a uno schieramento credibile che è in grado di farle queste cose. Questo ancora manca. Questa è la responsabilità di gruppi dirigenti, di tutto l’arco della potenziale alternativa, devono finirla coi cabotaggi e accendere il fuoco di un progetto».
Progetto un po’ utopico.
«Ci si arriverà, il problema è di arrivarci in tempo. Si arriverà man mano che si chiarisce lo scenario abbastanza distopico che abbiamo davanti. Il problema è che, secondo me, sarebbe già ora, perché le forze da suscitare ci sono, non è vero che non ci sono. Non sono convinto che questa destra sia realmente la maggioranza nel Paese. Sono convinto che c’è un elettorato di destra che è ammaccato, che c’è un’alternativa che ancora non si staglia, e quindi temo nei prossimi mesi nuovi elementi di disaffezione, di distacco».
Parliamo quindi della politica e dei suoi limiti. In questo momento ci troviamo di fronte a una vergogna che la storia non ci perdonerà, mi riferisco al genocidio che si sta consumando sulla striscia di Gaza. I limiti del governo italiano, ma anche delle forze politiche europee, sono evidenti.
«Il fatto che il Parlamento europeo non riesca a discutere della questione di Gaza, lo leggo come il momento più basso della storia dell’Europa da quando l’abbiamo messa insieme. È una cosa di una gravità senza nome. Gaza emblematizza il punto più basso dell’impotenza politica di questa configurazione europea».
Quali le cause?
«Cerco di spiegarmi questa deriva vedendo che davanti all’irrompere di Trump si sono avute fortissime reazioni in Paesi come Canada e Australia. Ma nessuna reazione si è vista in Europa. Per capirlo bisogna tornare a quando è partita la fase storica del passaggio tecnologico e della globalizzazione. Lo schiaffo che ha preso l’Europa è stato più forte che in qualsiasi altro posto, perché ha messo in crisi il “suo” modello sociale. I diritti del lavoro, la fiscalità progressiva, il welfare universalistico sono stati schiaffeggiati da una competizione con chi non aveva nessuno di questi elementi. Lo sbandamento, la sfiducia e il disamore verso il progetto europeo nascono lì. Ma la storia non finisce qui, credo che quest’ondata sovranista sia talmente piena di contraddizioni e problemi che dovrà prima o poi pagare il conto. Bisogna evitare il rischio che quelle contraddizioni finiscano con la rovina comune di tutte le parti in lotta, come diceva Marx».
Neanche il popolo europeo ha avuto l’esigenza di scendere in piazza per ribellarsi a tutto questo.
«Certamente, perché si vive nell’isolamento, come dicevamo prima. Perché non c’è ancora qualcuno che accenda la miccia. È la fase nella quale siamo. Nessuno va in piazza, ma se si fa un sondaggio, si scopre che la grande maggioranza delle persone ritiene Gaza una vergogna. Certamente toccherebbe alla politica accendere la miccia, a dare il via. Adesso le forze d’opposizione hanno fatto un pronunciamento abbastanza secco su Gaza. Facessero una manifestazione. Poi vediamo chi arriva. Sento anche io questa come un’esigenza».
“Eravamo poveri ma pieni di senso”, scrive nel libro. Appare un invito a un esercizio di pensiero, cioè a trovare un altro modo anche di abitare il mondo che non sia per forza nostalgico. Ci può spiegare meglio questa frase?
«Il pensiero, quando ero giovane, aveva un rapporto molto stretto con la politica, ricostruire questo rapporto nelle forme nuove è un altro di quei problemi aperti. Vi dà forza sapere che alle vostre spalle c’è stata una strada, ci sono delle radici e vi aiuta ad andare avanti, se avete una convinzione. Forza, anche da soli, ribellarsi è giusto. Bisogna anche studiare, bisogna anche sentirsi dire “chi erano i Beatles”, ma se non c’è ancora il pensiero che va coltivato, basta la convinzione. Basta la convinzione e l’esigenza morale di farla valere».
È questa la radice, o una delle radici, che lascia come politico?
«Sì, vorrei ricordare che ho fatto anche degli scioperi in solitaria a scuola. E ho imparato. Bisogna mettersi in una situazione collettiva di ideali e pulsioni. Queste sono le elementari della politica: avere la convinzione e cercare la compagnia. Il resto viene da sé».