La guerra eterna, archetipo di ogni conflitto: Servino mette in scena la guerra di Troia
C’è una sola guerra che ci piace raccontare: quella di Troia. Archetipo di ogni conflitto, resa eterna dal mito, ancora viva nelle pagine dell’Iliade e nelle sue infinite reinvenzioni artistiche e letterarie. Beniamino Servino la affronta in La guerra di Troia. Figure e testi per una messinscena del mito (LetteraVentidue): sue le visioni e il […] L'articolo La guerra eterna, archetipo di ogni conflitto: Servino mette in scena la guerra di Troia proviene da Il Fatto Quotidiano.







C’è una sola guerra che ci piace raccontare: quella di Troia. Archetipo di ogni conflitto, resa eterna dal mito, ancora viva nelle pagine dell’Iliade e nelle sue infinite reinvenzioni artistiche e letterarie. Beniamino Servino la affronta in La guerra di Troia. Figure e testi per una messinscena del mito (LetteraVentidue): sue le visioni e il progetto, accompagnati dai testi di Eugenio Tescione.
Ma che senso ha evocare un assedio di tremila anni fa mentre il mondo brucia in guerre vere? La risposta, forse, sta nella capacità del mito di essere uno specchio deformante della nostra storia. Troia è un simbolo, città in fiamme che si ripete, soglia tra civiltà e barbarie, costruzione e rovina. Abbiamo bisogno di macerie antiche, nobili, per comprendere le nostre.
Architetto visionario e radicale, Servino non è un maître à penser da rivista, ma una voce autentica, che elabora visioni fuori dalle mode. Vive e lavora – con tenace attaccamento – a Caserta, terra-palinsesto di monumentalità negate, stratificazioni urbane e periferie sospese. Questo spiega molto dell’autore, che è al tempo stesso architetto di pensiero e di cantiere. I suoi disegni e progetti – veri mondi costruiti – sono stati esposti alla Biennale di Venezia e a quella di Orléans: visioni di città impossibili fatte di cattedrali e torri, gasometri e rovine industriali.
Nel progetto su Troia, Servino ci conduce in un campo di battaglia che è più metafora che storia. Questa guerra non si combatte sulle pianure dell’Anatolia, ma nelle pieghe della coscienza. È lì che Achille sfida Ettore, che Agamennone alza il coltello su Ifigenia. L’architettura diventa scenografia mentale e smaschera la retorica del monumento, l’ossessione per l’archetipo, la nevrosi dell’icona. Si fa rappresentazione di versi e visioni: quinte, prospettive, sequenze di pieni e vuoti.
L’imponente tomba di Agamennone è un solido metafisico inciso su una lastra d’ottone; l’avamposto miceneo è una fortezza brutalista costruita in digitale; il palazzo regale poggia su un frammento dell’allestimento dell’Elektra di Kiefer. Il mondo di Servino è un congegno poetico e visivo che trabocca di invenzioni: torri d’avvistamento con punte aguzze di carta dorata che si avvitano nel cielo; mura fortificate disegnate con tratti fitti di penne al gel; il volto di Medusa che emerge da ritagli di moda e nastro adesivo, mentre un Agamennone deciso e solitario è avvolto in un tabarro segnato da spesse pennellate acriliche.
L’architettura, con la sua ossessione per la permanenza, si misura con la fragilità delle città esposte alla violenza della storia. E tutta questa furia — degli elementi, degli dèi, degli uomini — questo scontrarsi di eserciti e di volontà, si risolve nel linguaggio, in narrazione: raccontare l’ecatombe attraverso figure e parole. Servino non rilegge solo un mito, ma lo usa come prisma per osservare i conflitti dell’umanità. La guerra di Troia diventa chiave per interpretare le tensioni della modernità, le nostre battaglie quotidiane. Achille, Ettore, Elena, Paride, Cassandra: non eroi lontani, ma simboli delle nostre pulsioni e contraddizioni.
Questo è il merito di Servino e Tescione: ricordarci che il mito non è morto, ma ci abita. È ancora qui, ogni giorno: nello scontro tra ragione e istinto, tra dovere e desiderio, tra individuo e comunità. La guerra che ciascuno di noi combatte ogni giorno. Con una differenza: le nostre armi non sono lance, ma parole e figure. E forse, è proprio questo che ci salva.
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