Italia a prova di dazi: 6 miliardi su 8 esportati in Usa sono insostituibili
La quota di export davvero a rischio sarebbe di 300 milioni, secondo l’anticipazione della ricerca Teha sulla Roadmap del futuro Keep calm: l’impatto dei dazi americani sarebbe limitato. Dei 7,8 complessivi esportati negli Usa (+17% nel 2024, il mercato più dinamico) oltre 6 miliardi di euro di made in Italy sono prodotti senza alternative sul mercato americano con buona pace del presidente Donald Trump. “In una scala da 1 a 100, dove 1 è anelasticità piena e 100 elasticità piena, l’Italia è 2: siamo totalmente anelastici, primi al mondo in questo e l’impatto dei dazi ci fa un baffo”. Così Valerio De Molli, managing partner e Ceo Teha Group che a Milano ha presentato l’anticipazione della ricerca Teha, realizzata per la nona edizione del Forum nazionale food & beverage in programma a Bormio il 6 e 7 giugno 2025. L’evento, moderato da Cristina Lazzati, direttrice di Mark Up e Gdoweek, ha visto la partecipazione di alcuni dei prossimi protagonisti, alla presenza di Massimo Sertori, assessore Enti Locali, montagna, piccoli comuni di Regione Lombardia, con il saluto del presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana. Un mercato interno da 234 miliardi che ha bisogno di rilancio di consumi Valerio De Molli, managing partner e Ceo Teha Group La ricerca sui dazi americani è il quarto studio strategico (con la Roadmap del futuro per il food&beverage, l’Italian Sounding, la (R)evoluzione sostenibile) che sarà presentata (e aggiornata) alla “Cernobbio del food”, in Valtellina. Il calcolo è stato fatto sui dazi al 20% (oggi temporaneamente dimezzati). “Oltre 6 miliardi di export agrifood verso gli Usa sono a bassissima sostituibilità, non saranno sostituibili, mentre quelli che riteniamo totalmente a rischio sono circa 300 milioni -ha spiega De Molli-. Nell’ipotesi (secondo un documento della Commissione Ue) che un 25% dell’aumento dei dazi possa essere assorbito dall’esportatore e il resto si scarichi sul consumatore, il potenziale di perdita di export dovuto ai dazi lo stabiliamo in una forchetta tra 1,3 e 1,6 miliardi di euro, sui circa 70 circa miliardi di export totali. Dunque assolutamente riposizionabili in altro Paese, anche perché l’Italia è quarta al mondo per diversificazione dell’export”. De Molli invita piuttosto a concentrarsi sul mercato interno, che vale 234 miliardi, e andrebbe stimolato in questa fase storica. Le aziende più preoccupate dal clima di incertezza Le aziende, pur auspicando maggiore tranquillità, concordano che la resilienza del made in Italy è a prova di dazi. “Esportiamo in 150 Paesi, la diversificazione, il posizionamento premium, avere un prodotto del territorio, distintivo, a bassa sostituibilità dovrebbero permetterci di affrontare le sfide, ma auspichiamo una collaborazione tra Italia ed Europa a tutela del made in Italy -ha affermato Fabiana Marchini, head of sustainability & corporate affairs Gruppo Sanpellegrino-. Importante è poi il valore che restituiamo alle comunità: uno dei nostri progetti riguarda, con Levissima, la riqualificazione di un versante della montagna di Bormio, disastrato dalla tempesta Vaia del 2018”. “I prodotti che esportiamo, non solo negli Usa, sono difficilmente sostituibili e replicabili e non credo che un dazio al 10-20% possa far cambiare una certa impostazione -ha sottolineato Claudio Palladi, Vp e Ceo di Rigamonti, nonché presidente del Distretto alimentare qualità della Valtellina-. Stiamo aprendo agli Usa, prima erano chiusi per le barriere sanitarie. Abbiamo rilevato qualche anno fa un’azienda in difficoltà, la Principe di San Daniele, marchio storico, la stiamo rilanciando con l’obiettivo di vendere il più di 50% della produzione overseas, in modo particolare negli Usa”. Giangiacomo Pierini, corporate affairs e sustainability director di Coca-Cola Hbc ha messo l’accento su altri fattori esogeni, direttive e regolamenti sempre più stringenti dell’Ue, come la prima versione del regolamento imballaggi che penalizzava il riciclo, la sugar tax, che possono creare difficoltà alle imprese. “Non si può però crescere facendo a meno della sostenibilità. Nei giorni di Bormio pubblicheremo il 21esimo report, negli ultimi 15 anni abbiamo investito 500 milioni di euro nei nostri stabilimenti per implementare tecnologie sostenibili e processi innovativi. Abbiamo poi internalizzato diverse fasi della supply chain, la filiera più corta (1450 fornitori in Italia) ci dà maggior tranquillità”. Per Alessia Zucchi, amministratore delegato Oleificio Zucchi, al momento preoccupa più la svalutazione del dollaro e qualche timore aveva suscitato la prima tornata di dazi con una tariffa più favorevole alla Turchia al 10%. “Gli Usa non hanno prodotto sufficiente per soddisfare la richiesta, per l’export è fondamentale essere rilevanti, c’è necessità di avere più olio, più volumi. I prezzi sono saliti molto a scaffale per la carenza di prodotto, in particolare dalla Spagna, primo produttore al mondo. Occorre allora rendere sempre più efficienti gli interventi a livello


Keep calm: l’impatto dei dazi americani sarebbe limitato. Dei 7,8 complessivi esportati negli Usa (+17% nel 2024, il mercato più dinamico) oltre 6 miliardi di euro di made in Italy sono prodotti senza alternative sul mercato americano con buona pace del presidente Donald Trump. “In una scala da 1 a 100, dove 1 è anelasticità piena e 100 elasticità piena, l’Italia è 2: siamo totalmente anelastici, primi al mondo in questo e l’impatto dei dazi ci fa un baffo”. Così Valerio De Molli, managing partner e Ceo Teha Group che a Milano ha presentato l’anticipazione della ricerca Teha, realizzata per la nona edizione del Forum nazionale food & beverage in programma a Bormio il 6 e 7 giugno 2025. L’evento, moderato da Cristina Lazzati, direttrice di Mark Up e Gdoweek, ha visto la partecipazione di alcuni dei prossimi protagonisti, alla presenza di Massimo Sertori, assessore Enti Locali, montagna, piccoli comuni di Regione Lombardia, con il saluto del presidente di Regione Lombardia, Attilio Fontana.
Un mercato interno da 234 miliardi che ha bisogno di rilancio di consumi

La ricerca sui dazi americani è il quarto studio strategico (con la Roadmap del futuro per il food&beverage, l’Italian Sounding, la (R)evoluzione sostenibile) che sarà presentata (e aggiornata) alla “Cernobbio del food”, in Valtellina. Il calcolo è stato fatto sui dazi al 20% (oggi temporaneamente dimezzati). “Oltre 6 miliardi di export agrifood verso gli Usa sono a bassissima sostituibilità, non saranno sostituibili, mentre quelli che riteniamo totalmente a rischio sono circa 300 milioni -ha spiega De Molli-. Nell’ipotesi (secondo un documento della Commissione Ue) che un 25% dell’aumento dei dazi possa essere assorbito dall’esportatore e il resto si scarichi sul consumatore, il potenziale di perdita di export dovuto ai dazi lo stabiliamo in una forchetta tra 1,3 e 1,6 miliardi di euro, sui circa 70 circa miliardi di export totali. Dunque assolutamente riposizionabili in altro Paese, anche perché l’Italia è quarta al mondo per diversificazione dell’export”. De Molli invita piuttosto a concentrarsi sul mercato interno, che vale 234 miliardi, e andrebbe stimolato in questa fase storica.
Le aziende più preoccupate dal clima di incertezza
Le aziende, pur auspicando maggiore tranquillità, concordano che la resilienza del made in Italy è a prova di dazi. “Esportiamo in 150 Paesi, la diversificazione, il posizionamento premium, avere un prodotto del territorio, distintivo, a bassa sostituibilità dovrebbero permetterci di affrontare le sfide, ma auspichiamo una collaborazione tra Italia ed Europa a tutela del made in Italy -ha affermato Fabiana Marchini, head of sustainability & corporate affairs Gruppo Sanpellegrino-. Importante è poi il valore che restituiamo alle comunità: uno dei nostri progetti riguarda, con Levissima, la riqualificazione di un versante della montagna di Bormio, disastrato dalla tempesta Vaia del 2018”. “I prodotti che esportiamo, non solo negli Usa, sono difficilmente sostituibili e replicabili e non credo che un dazio al 10-20% possa far cambiare una certa impostazione -ha sottolineato Claudio Palladi, Vp e Ceo di Rigamonti, nonché presidente del Distretto alimentare qualità della Valtellina-. Stiamo aprendo agli Usa, prima erano chiusi per le barriere sanitarie. Abbiamo rilevato qualche anno fa un’azienda in difficoltà, la Principe di San Daniele, marchio storico, la stiamo rilanciando con l’obiettivo di vendere il più di 50% della produzione overseas, in modo particolare negli Usa”. Giangiacomo Pierini, corporate affairs e sustainability director di Coca-Cola Hbc ha messo l’accento su altri fattori esogeni, direttive e regolamenti sempre più stringenti dell’Ue, come la prima versione del regolamento imballaggi che penalizzava il riciclo, la sugar tax, che possono creare difficoltà alle imprese. “Non si può però crescere facendo a meno della sostenibilità. Nei giorni di Bormio pubblicheremo il 21esimo report, negli ultimi 15 anni abbiamo investito 500 milioni di euro nei nostri stabilimenti per implementare tecnologie sostenibili e processi innovativi. Abbiamo poi internalizzato diverse fasi della supply chain, la filiera più corta (1450 fornitori in Italia) ci dà maggior tranquillità”. Per Alessia Zucchi, amministratore delegato Oleificio Zucchi, al momento preoccupa più la svalutazione del dollaro e qualche timore aveva suscitato la prima tornata di dazi con una tariffa più favorevole alla Turchia al 10%. “Gli Usa non hanno prodotto sufficiente per soddisfare la richiesta, per l’export è fondamentale essere rilevanti, c’è necessità di avere più olio, più volumi. I prezzi sono saliti molto a scaffale per la carenza di prodotto, in particolare dalla Spagna, primo produttore al mondo. Occorre allora rendere sempre più efficienti gli interventi a livello agronomico. Trasparenza sostenibilità sono importanti, giusta la direttiva sul greenwashing. Ma è anche fondamentale l’innovazione di prodotto che deve essere al servizio e rispondere ai problemi dei consumatori, come abbiamo fatto con l’olio di semi alto oleico Zucchi Fritto Libero! che riduce di oltre il 50% l’odore di frittura”.
L’export sale a 67 miliardi: vino in testa, brillano olio e cioccolato
La filiera agrifood conferma numeri da record: 263 miliardi di fatturato, +38% nel decennio, 3,5 milioni di occupati, 67 mld di export, +8,3% (senza tabacco), 74 mld di valore aggiunto e 17 mld di investimento. “Come filiera i 74 miliardi valgono tutto l’automotive di Francia e Spagna messi insieme moltiplicato 3 volte oppure tutto il farmaceutico di Germania e Francia moltiplicato per due”. Grassi e oli vegetali italiani (4,1 mld di export) e cioccolato (3,4) hanno fatto registrare le crescite più significative, rispettivamente +27,2% e +17,8%. Il vino continua a essere il prodotto agroalimentare italiano più esportato, oltre 8 miliardi, +5,5%. “In otto prodotti siamo al primo posto per quota mondiale, in 4 secondi”.
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