Infermieri sottopagati e in fuga, ne mancano 65mila all’appello
Stipendi bassi, carichi di lavoro elevati e zero crescita tra i motivi del perché in Italia c'è carenza cronica di infermieri. Si rischia un esodo. Ecco cosa dicono i dati 2025

In Italia si sta delineando una vera e propria crisi sanitaria: mancano gli infermieri. A fotografare lo stato di salute della professione è l’ultimo rapporto FNOPI (Federazione Nazionale degli Ordini delle Professioni Infermieristiche), che evidenzia un quadro difficile.
Nonostante l’alta soddisfazione per la qualità dell’assistenza (84%), aumenta il malessere interno della categoria, tra carico di lavoro pesante e una generale mancanza di riconoscimento professionale. Secondo l’indagine, il rapporto di infermieri per abitanti è inferiore alla media internazionale.
Evidenti inoltre forti differenze regionali, così come una cronica carenza di presenza infermieristica nei ruoli strategici della sanità pubblica. La retribuzione è bassa e molto variabile a seconda delle aree, per un totale di 65mila infermieri che mancano all’appello.
Quanto guadagnano gli infermieri in Italia
Lo stipendio medio di un infermiere in Italia è di 32.400 euro, secondo quanto riportato dal nuovo report sulla professione. Una cifra nettamente inferiore alla media europea, che si attesta a 39.800 euro. Estremamente lontana, quindi, dai Paesi con le retribuzioni più alte come:
- Lussemburgo;
- Germania;
- Paesi Bassi.
In queste nazioni, la paga più alta permette di trattenere il personale e migliorare la qualità dell’assistenza.
Ma anche dentro i confini italiani c’è divario. In Trentino-Alto Adige un infermiere può arrivare a 37.204 euro, mentre in Molise ci si ferma a 26.186 euro. Nelle regioni del Sud come Campania e Calabria invece lo stipendio medio resta sotto i 30.000 euro. I
La disparità retributiva e organizzativa è uno dei fattori della crisi in corso: l’Italia ha solo 6,5 infermieri ogni 1.000 abitanti, ben al di sotto della media europea di 8,4. E se si considera solo il personale pubblico, il dato precipita a 4,79. La Lombardia, per esempio, è tra le peggiori con appena 3,53 infermieri pubblici per 1.000 abitanti.
Secondo il report quasi il 30% degli infermieri pensa di cambiare lavoro e il 45% nei reparti ospedalieri valuta di lasciare la professione entro un anno. Le cause principali sono proprio stipendi troppo bassi, carenza cronica di personale e poche possibilità di carriera.
In dettaglio le regioni con stipendi più alti e bassi sono:
- Trentino-Alto Adige con 37.204 euro;
- Emilia-Romagna con circa 35.000 euro;
- Molise con 26.186 euro;
- Campania con meno di 30.000 euro;
- Calabria con meno di 30.000 euro.
I motivi della fuga dalla professione
Sempre usando il report come base per l’analisi, si scopre che quasi il 30% degli infermieri valuta spesso di cambiare lavoro o unità operativa. I motivi, come abbiamo detto, sono i carichi di lavoro eccessivi (il numero di nuovi laureati non è sufficiente a compensare i pensionamenti) e lo stipendio, ma entrano in gioco anche fattori come turni definiti disumani, insoddisfazione per il riconoscimento sociale e la mancanza di voce nei processi decisionali aziendali.
La pandemia da Covid-19 aveva acceso i riflettori sul valore della professione, ma gli effetti sono stati temporanei. Oggi il personale ne risente: il burnout resta altissimo in alcuni reparti, con picchi di insoddisfazione che arrivano al 75% nei settori più critici.
Il segretario nazionale di Nursind, Andrea Bottega, ha spiegato in un intervista qual è la sensazione dei professionisti in questi anni. Secondo Bottega infatti il ricordo della pandemia, e l’immagine eroica degli infermieri, è stato rimosso.
L’approccio è cambiato, l’attenzione si è spostata su nuovi problemi legati alle liste d’attesa e all’intasamento dei Pronto soccorso. Purtroppo si sta ancora navigando a vista e la promessa di valorizzazione della professione è rimasta tale.
Prosegue spiegando come nulla è stato fatto, se non in due settori: il personale del Pronto soccorso e la detassazione per chi fa orario supplementare per ridurre le liste d’attesa. Manca quindi un’azione concreta per rendere attrattiva la professione infermieristica (da cui i giovani si tengono lontani), per riconoscere il suo valore e quindi coprire quel numero di posti mancanti (65mila unità).
Chi paga (davvero) per la crisi della professione
A pagare il prezzo più alto sono, purtroppo, i pazienti. Con meno infermieri, aumenta il rischio clinico e diminuisce la qualità dell’assistenza e si allungano i tempi di presa in carico. Le evidenze raccolte nel report spiegano come quando il rapporto numerico tra infermieri e pazienti si riduce, cresce sia la mortalità ospedaliera, che gli “eventi avversi”.
Ma non solo. Anche i medici sono più esposti, costretti a coprire ruoli operativi e gestionali che spetterebbero al personale infermieristico. Così le famiglie, spesso, si trovano a viaggiare da Sud a Nord e a sopportare costi extra per garantire un’assistenza adeguata ai propri cari.