Il giornalismo si gioca il futuro: "Più riflessione, meno velocità"
Il libro di Carlo Sorrentino: "Senza buona informazione la società non tiene. Serve un nuovo patto con il pubblico"

La stampa ha perso in pochi anni milioni di lettori, i social network hanno sconvolto il panorama informativo e intanto incombe l’intelligenza artificiale generativa: c’è chi parla già di “morte del giornalismo“. Non Carlo Sorrentino, sociologo, docente di Giornalismo e sfera pubblica all’Università di Firenze. L’ultimo suo libro, un articolato ritratto del campo dell’informazione, si intitola Il giornalismo ha un futuro (Mulino). È un ottimismo, il suo, mitigato dalle condizioni che pone: capire, cambiare, reinventarsi.
Professore, qual è la parola chiave della crisi del giornalismo contemporaneo?
"Frammentazione. Siamo ormai oltre la disintermediazione di cui abbiamo parlato per anni. La stessa distinzione fra informazione e comunicazione è di fatto superata, visto che tutti sono in grado, potenzialmente, di comunicare con tutti. Oggi è perfino difficile dire che cosa sia e che cosa non sia giornalismo".
Ma c’è o non c’è uno specifico del giornalismo?
"C’è, anche se oggi è difficile farlo capire alle persone comuni. Ed è quello di sempre: verificare le informazioni, selezionarle, gerarchizzarle. Il problema nasce dal fatto che questa operazione deve avvenire in un mare magnum di informazioni che in apparenza hanno tutte le stesse caratteristiche. Perciò credo che debba esserci un nuovo patto fra il sistema giornalistico e i cittadini. Gli uni e gli altri devono cambiare registro".
In quale direzione?
"Quanto ai giornalisti, credo che debbano convincersi che delle cinque classiche W (When? What? Who? Where? Why?) la più importante è quest’ultima, il perché. In una realtà sempre più complessa, c’è forte bisogno di una funzione di setaccio e interpretazione".
E i cittadini come dovrebbero cambiare?
"Oggi siamo abituati a raccogliere informazioni dalle fonti più disparate e incontrollate, le riceviamo sullo smartphone e pensiamo che siano una sorta di commodity gratuita. Dovremmo invece capire che l’informazione ha un forte valore sociale, che senza un’intermediazione informativa, cioè qualcuno che fa un lavoro di selezione e verifica, viene meno la possibilità che una società stia insieme. Credo che questo sia il punto più importante".
Come si può raggiungere questo obiettivo?
"Serve una vera alfabetizzazione digitale. Occorre mettere a fuoco che l’informazione è un bene pubblico e corrisponde a ciò che in altri tempi fu l’alfabetizzazione di massa. Imparare a leggere e scrivere ci permise d’essere cittadini consapevoli. Oggi si tratta di capire che è necessario spendere un po’ del nostro tempo e dei nostri soldi per l’informazione".
Si dice che i giovani non leggono, non si informano, sono disinteressati.
"Non credo che sia così. In realtà i giovani si informano, anche se non leggono i quotidiani o non guardano i tg. Hanno semmai un rapporto irriflessivo con l’informazione, perché non sono abituati a fare la minima fatica per procurarsela. Servirebbe un processo di educazione civica, qualcosa di simile, se l’esempio mi è consentito, a quanto fatto con la raccolta differenziata dei rifiuti: separare la carta dal vetro e dall’umido costa un po’ di fatica, ma porta un beneficio comune e tutti ci siamo abituati a farla".
Vede segnali di cambiamento nella giusta direzione?
"Vedo delle piccole luci, sia nel campo del giornalismo, sia nel pubblico. I dati del Digital News Report dell’Università di Oxford mostrano che le persone si stanno stancando dell’informazione superficiale tipica dei social network e che c’è una crescente richiesta di approfondimento. Anche sul versante della produzione sta accadendo qualcosa. Per esempio, ci sono tanti casi, in Italia e all’estero, di testate che cominciano a fare un lavoro di community, in un dialogo costante con il pubblico, e sono sempre di più quelle che si dedicano principalmente a un giornalismo di tipo interpretativo, più di inquadramento e di approfondimento che di velocità nel dare le notizie".
Nasce da qui l’ottimismo espresso nel titolo del libro?
"Da questo e dalla convinzione che senza una condivisione informativa non abbiamo società. I rischi certo non mancano. Se penso all’attuale modello economico del sistema giornalistico divento pessimista, con i cittadini poco abituati a pagare per l’informazione e il mercato pubblicitario fagocitato all’80% da quattro-cinque piattaforme: su questo punto credo che debba esserci un forte intervento regolativo anche a livello europeo".
Il suo libro si chiude con la proposta di “un patto delle cinque i”: identità, inclusione, illuminazione, inquadramento, interpretazione. Ce n’è una più importante delle altre?
"Quella che racchiude un po’ tutto è la capacità di interpretare, cioè di comprendere e far comprendere i fatti nel loro contesto. Un grande studioso, Michael Schudson, diceva che il bene del giornalismo non è la notizia, ma mettere in forma le informazioni. Non è mai stato vero come oggi. Poi ci sarebbe una sesta i, che ho dato per scontata ma forse tanto scontata non è: l’indipendenza".