Il Dr. Carter è il cuore che dà il ritmo a E.R.
ATTENZIONE: L’ARTICOLO CONTIENE SPOILER SU E.R. “Quest’uomo è una leggenda”. Con queste parole il Dr. Morris presenta il Dr. John Carter ad alcuni colleghi nel corso dell’ultima stagione di E.R. Il medico interpretato da Noah Wyle è tornato a Chicago per sistemare alcune faccende private e per l’occasione ha fatto visita al luogo che ha… Leggi di più »Il Dr. Carter è il cuore che dà il ritmo a E.R. The post Il Dr. Carter è il cuore che dà il ritmo a E.R. appeared first on Hall of Series.

ATTENZIONE: L’ARTICOLO CONTIENE SPOILER SU E.R.
“Quest’uomo è una leggenda”. Con queste parole il Dr. Morris presenta il Dr. John Carter ad alcuni colleghi nel corso dell’ultima stagione di E.R. Il medico interpretato da Noah Wyle è tornato a Chicago per sistemare alcune faccende private e per l’occasione ha fatto visita al luogo che ha amato per undici lunghi anni. Carter infatti è stato l’unico personaggio del cast originario a rimanere nella serie continuativamente per undici stagioni. L’unico di cui noi spettatori abbiamo potuto seguire l’intero percorso, da tirocinante al terzo anno ad assistente anziano e responsabile dell’Emergency room. Le parole di Morris, quindi, possiamo farle anche un po’ nostre dato che solo il Dr. Greene ha saputo dare il passo (quel famoso “you set the tone” passato di generazione in generazione) quanto il Dr. Carter.
Se il primo però rappresenta simbolicamente le radici del pronto soccorso, il secondo ne è il cuore. E sì. Perché questo medico nato da una famiglia aristocratica con un patrimonio a nove zeri, è dotato di un cuore enorme il cui battito ha segnato il passare del tempo all’interno della narrazione di E.R. Ogni pulsazione è un secondo e ogni secondo ha plasmato un minuto e poi un altro e un altro ancora, fino a comporre la melodia di una vita.
Ogni volta che il cuore di John dà un colpo, il ragazzo prova, sbaglia, si dispera, impara e cresce. E questo movimento continuo e instancabile diventa ben presto il ritmo che scandisce anche le vite degli altri. Di tutti coloro che gli stanno intorno, dai colleghi ai pazienti. Più Carter evolve, più il battito personale si fa universale. Un unico sonoro organismo che pulsa e respira grazie a quel cuore lì, che non si ferma neanche di fronte alle situazioni più ingiuste e dolorose.
Uno degli insegnamenti che abbiamo imparato dalla sua storyline è proprio la capacità di trasformare la sofferenza in rinascita. Carter deve affrontare sfide (e drammi) che diventano via via sempre più difficili, esattamente come avviene nell’esistenza di ognuno di noi. I problemi possono trasformarsi in muri e i muri in montagne granitiche di cui non vediamo la sommità. Eppure questo meraviglioso personaggio trova sempre la forza di gettare il cuore oltre l’ostacolo. Oltre la paura. Oltre le fragilità.
Stiamo tutti pensando all’episodio in cui viene accoltellato da un paziente psichiatrico? Sì, ma non solo. Dopo l’accaduto e la morte di Lucy, John sviluppa una tossicodipendenza derivata dalla depressione, per altro più che comprensibile. Quando viene scoperto dallo staff dell’E.R., viene aiutato dal Dr. Benton (e chi se no?) regalandoci una delle sequenze più toccanti della serie (di cui abbiamo scritto anche qui). Siamo rimasti tutti con il fiato sospeso quando John tira un pugno in pieno viso al suo mentore, poco prima di quel categorico “Carter, tu su quella macchina ci devi salire”. Verso Atlanta e la clinica di disintossicazione. E John ci sale davvero su quell’auto, e poi sull’aereo. Il finale della vicenda lo conoscete.
Del resto anche lui pochi anni prima si era trovato in una circostanza simile ma a ruoli invertiti. Suo cugino Chase, un giovanissimo e talentuoso fotografo, si iniettava eroina regolarmente e John fu l’unico della loro famiglia snob ed egoista a prendersi cura del ragazzo. Cari lettori e lettrici, vedere una persona così giovane in continue crisi di astinenza che lo portarono a uno stato semi-vegetativo permanente, fu uno strazio. Un pugno allo stomaco fortissimo. Per noi come per Carter. A ripensarci mi sale il magone ancora adesso.
Anche se era solo finzione, però, la lezione che arrivò nelle nostre case fu chiarissima. Questo è ciò che accade quando si abusa di una sostanza stupefacente, da cui non sempre si riesce a uscirne. È la dura verità, senza filtri. Punto. Per molti di noi abituati in quegli anni ai film d’animazione disneyani dai finali zuccherosi e illusori, E.R. ha rappresentato un crudissimo bagno di realtà.
E ancora, chi corre in soccorso del Dr. Kovac quando giunge la notizia che quest’ultimo può essere morto durante la sua missione come volontario in Congo? Carter, ovviamente. Un altro volo, un’altra destinazione, un altro cuore gettato oltre la povertà e la guerra civile. Al suo arrivo cerca Luka in lungo e in largo e alla fine lo trova, vivo per miracolo e colmo di gratitudine. Dell’Africa potremmo scrivere un articolo a parte. Chi di voi ha visto tutta la serie lo sa bene. Quello però che possiamo dire con certezza è che quando John scopre questo continente, il suo cuore inizia ad accelerare battendo intensamente come avviene quando ci si innamora.
Il medico infatti in Congo ci lascia un pezzo di quel cuore di cui continuiamo a parlare in queste righe. Un pezzo bello grosso, anche. Tanto da trasferirsi stabilmente in quella nazione, dove conosce Makemba (detta Kem), la compagna che stava aspettando da una vita intera. Tuttavia, anche questa volta il suo destino non ha avuto un lieto fine. Perdere un figlio all’ottavo mese di gravidanza e senza una causa ben definita è un evento che può spezzare legami, esistenze, percorsi costruiti solidamente fino a quel momento. È una tragedia emotivamente devastante. Quasi impossibile da spiegare con le parole. Anche in quell’occasione, però, John è stato capace nel tempo di convertire il dolore in altruismo, finanziando la costruzione di una clinica che prende il nome del suo bambino.
Come ricorderete durante le stagioni di E.R. Carter ha avuto diverse relazioni sentimentali con donne di ogni età e ruolo, dalle quali però ne è uscito ogni volta ferito e sofferente. Purtroppo anche l’amore tra lui e Kem smarrisce la rotta dopo la morte del piccolo. Ma John è anche un gran testone e fino all’ultima stagione non perderà la speranza di una riconciliazione con la persona di cui è ancora innamorato. Ed è inutile girarci intorno: noi spettatori ci siamo affezionati profondamente al Dr. Carter soprattutto per la sua sensibilità e dolcezza incondizionate. Caratteristiche che per molto tempo hanno preoccupato i suoi colleghi più esperti, perchè le vedevano come debolezze all’interno di un ambiente violento e implacabile come quello del pronto soccorso. Non bisogna creare legami coi pazienti, non bisogna farsi coinvolgere troppo, non si deve stare male per loro.
E invece il Dr. Carter fa esattamente l’opposto, ma non per provocazione o per anarchia. Semplicemente perché lui è fatto così. Ragiona con l’anima prima che con la mente e anche quando diventa un medico esperto (e leggendario) non perde mai completamente queste sue qualità. A pensarci da adulta, è incredibile come ogni azione di questo personaggio trasmetta sempre un messaggio subliminale di speranza e di forza.
All’inizio della serie è un tipo allegro, timido, spensierato, che fa disperare il Dr. Benton per la sua ingenuità ma anche per il suo interesse autentico verso i malati e le malattie. Passano gli anni, i medici, i drammi personali e collettivi ma Carter è ancora lì, più irrequieto, severo (le sfuriate verso il Dr. Pratt e il Dr. Barnett ne sono l’esempio calzante) e certamente meno idealista. Ha imparato, esperienza dopo esperienza, a proteggere la propria vulnerabilità e a non scoprire il fianco, come si suol dire. Prima o poi arriva per tutti il momento in cui è necessario fare i conti con i propri limiti. In cui le illusioni vengono smussate dalla lama affilata della concretezza.
Per John questo momento coincide con la morte della nonna Millicent a cui era molto affezionato. Nonostante abbia ricevuto in eredità il patrimonio di famiglia, il medico si è sempre vergognato del modo in cui i suoi antenati si sono arricchiti. Vendere carbone a prezzi esosi ai ceti bassi della popolazione non è certo qualcosa di cui vantarsi. Il senso di imbarazzo e di disagio nei confronti dell’opulenza e dell’agiatezza non è quindi un capriccio, ma una conseguenza della sue radici. Lui vuole occuparsi degli altri, curare i malati (che non sono numeri!), aiutare i colleghi meno abbienti che rischiano di perdere la borsa di studio. Non chiede beni materiali. Chiede integrità.
La freddezza e la superficialità della madre e del padre diventano così la causa inconscia e spontanea della sua modestia, caratteriale ed economica, e della sua decisione di fare il dottore. Abbiamo visto questo personaggio alloggiare nel dormitorio per studenti di medicina come chiunque altro o prendere in affitto uno scantinato di proprietà della Dr.ssa Weaver. Questo tormento interiore tra passato e presente, che non lo abbandona mai per tutte le undici stagioni di E.R., alla fine trova una via d’uscita risolutrice: l’accettazione dei fatti.
Infatti il giovane Carter e il Carter adulto si sovrappongono e si fondono nell’istante in cui John comprende che per realizzare i suoi ideali non può più voltare le spalle al capitale famigliare. I due cuori riescono a fare pace in modo intelligente perché il medico inizia a usare il denaro in modo altrettanto intelligente. Come? Aiutando il prossimo, finanziando istituzioni pubbliche e continuando a svolgere la sua professione con impegno e passione, le due cose che gli riescono meglio.
Tuttavia si può essere benestanti quanto si vuole, ma se non si ha un cuore si rimane vuoti e mediocri. Privi di quella sostanza essenziale che possiamo chiamare linfa, sangue o sistema che mette in circolo empatia e dedizione. Oltre a contribuire al nutrimento degli organi vitali. Gli amici, i colleghi e i malati sono collocati da qualche parte in questo organismo dinamico e in continua trasformazione, di cui il Dr. Carter è il cuore. Palpitante, centrale e pronto a lanciarsi oltre l’ostacolo pur di mantenere in vita i suoi pazienti così come coloro che ama.
Il finale della nona stagione di E.R. è la metafora perfetta del ciclo vitale.
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