Il caso Packer: la donna assolta a Londra dall’accusa di aborto illegale dopo quattro anni di odissea giudiziaria

C’è un drammatico caso che ha riacceso il dibattito sulle leggi britanniche in materia di aborto. L’8 maggio Nicola Packer, una londinese di 41 anni, è stata assolta dall’accusa di aborto illegale. Ma ci è voluta un’odissea giudiziaria di oltre quattro anni. La storia inizia nel 2020, in pieno lockdown da Covid, quando Packer, convinta […] L'articolo Il caso Packer: la donna assolta a Londra dall’accusa di aborto illegale dopo quattro anni di odissea giudiziaria proviene da Il Fatto Quotidiano.

Mag 9, 2025 - 14:53
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Il caso Packer: la donna assolta a Londra dall’accusa di aborto illegale dopo quattro anni di odissea giudiziaria

C’è un drammatico caso che ha riacceso il dibattito sulle leggi britanniche in materia di aborto. L’8 maggio Nicola Packer, una londinese di 41 anni, è stata assolta dall’accusa di aborto illegale. Ma ci è voluta un’odissea giudiziaria di oltre quattro anni. La storia inizia nel 2020, in pieno lockdown da Covid, quando Packer, convinta di essere in perimenopausa e quindi con poche probabilità di concepire, esegue un test di gravidanza su consiglio di un’amica. Il test conferma che è incinta, ma la donna non vuole figli. A causa delle restrizioni imposte dal lockdown, Packer ottiene farmaci abortivi — mifepristone e misoprostolo — tramite una consulenza telematica, una misura temporanea consentita dalla normativa d’emergenza per gravidanze fino a 10 settimane. Ignara di essere a circa 26 settimane di gestazione, Packer li assume, in casa, il 6 novembre 2020. Il giorno successivo, partorisce un feto nato morto e si reca al Chelsea e Westminster Hospital per ricevere cure mediche.

In ospedale, Packer dichiara inizialmente di aver subito un aborto spontaneo, perché teme rivelare l’uso dei farmaci abortivi possa compromettere l’assistenza. Poi confida la verità a un’ostetrica, e l’ospedale allerta la polizia. La donna viene arrestata, i suoi dispositivi elettronici sequestrati. In Inghilterra e Galles, l’aborto è legale fino a 24 settimane, con deroghe per gravi anomalie fetali o pericoli per la vita della madre. Gli aborti a domicilio, però sono consentiti solo fino a 10 settimane. La Crown Prosecution Service (CPS) l’ha accusata, in base alla legge del 1861 Offences Against the Person Act – legge emendata negli anni ma che costituisce ancora la base giuridica per I reati contro la persona – di aver somministrato illegalmente una sostanza per indurre un aborto, e ha sostenuto che fosse consapevole di aver superato il limite di 10 settimane previsto per gli aborti domiciliari. Circostanza che lei ha sempre respinto con fermezza.

Durante il processo, Packer ha dichiarato che non avrebbe assunto i farmaci se avesse saputo di essere a 26 settimane. I suoi legali hanno descritto la vicenda come una tragica fatalità, non un reato. Dopo sei ore di camera di consiglio, la giuria l’ha assolta all’unanimità. Ma il processo, che ha esposto pubblicamente dettagli intimi della vita medica e personale di Packer, ha suscitato dure critiche da parte di professionisti sanitari e attivisti. Il dottor Jonathan Lord, consulente ginecologo del NHS e co-presidente del gruppo di lavoro sull’aborto del Royal College of Obstetricians and Gynaecologists (RCOG), ha definito l’azione legale “eccessivamente severa” e ha accusato la legge del 1861 di aver favorito interventi che hanno danneggiato gravemente le donne. La presidente del RCOG, la dottoressa Ranee Thakar, ha aggiunto che normative obsolete hanno alimentato paura e stigmatizzazione e ha fatto appello a una riforma urgente per tutelare i diritti riproduttivi.

Il caso ha mobilitato anche la politica. La deputata laburista Tonia Antoniazzi, che ha supportato Packer in tribunale, ha definito l’indagine, durata oltre quattro anni, “crudele e ingiustificata” e ha sottolineato il pesante tributo emotivo e finanziario, inclusa la perdita dei risparmi di Packer per sostenere le significative spese legali. La sua collega Stella Creasy ha promosso un emendamento al Crime and Policing Bill per decriminalizzare l’aborto, un’iniziativa appoggiata da oltre 30 organizzazioni che hanno espresso preoccupazione per l’aumento delle indagini penali a seguito di aborti e hanno ricordato che le leggi attuali colpiscono le donne in modo sproporzionato. Posizione condivisa dalla maggior parte delle associazioni di difesa dei diritti delle donne: Katie Saxon del British Pregnancy Advisory Service ha sostenuto che perseguire penalmente le donne per decisioni legate all’aborto non serve l’interesse pubblico e causa danni duraturi. Helle Tumbridge, amica di Packer, ha invocato la decriminalizzazione per garantire che le donne non siano trattate come cittadine di seconda classe quando cercano assistenza sanitaria.

Il caso di Packer ha messo in luce il conflitto tra le politiche sanitarie riproduttive del Regno Unito e un quadro normativo anacronistico, in parte anteriore al suffragio femminile. La legge del 1861, secondo i critici, è completamente inadeguata alle pratiche mediche moderne, specialmente nel contesto degli aborti telematici introdotti durante la pandemia. Il caso ha avviato una riflessione più ampia su come il Regno Unito abbia finora conciliato l’autonomia individuale, l’accesso alle cure sanitarie e la responsabilità legale, e questa assoluzione sembra poter diventare il perno di una svolta giuridica, politica e sociale.

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