Ghiaccio sulle Alpi: isolamento, silenzi e luce tra le vette del 2069
Prima del buio Valle d’Aosta, Novembre 2069. Il cielo era ancora azzurro, appena velato. L’aria tagliente, ma non diversa da altri autunni. Nei rifugi si parlava già del primo innevamento anticipato, ma nessuno – nemmeno i cronometereologi quantici di Ginevra – poteva immaginare che quell’inverno non sarebbe finito. Io ero a Courmayeur, inviato per raccontare […] Ghiaccio sulle Alpi: isolamento, silenzi e luce tra le vette del 2069

Prima del buio
Valle d’Aosta, Novembre 2069. Il cielo era ancora azzurro, appena velato. L’aria tagliente, ma non diversa da altri autunni. Nei rifugi si parlava già del primo innevamento anticipato, ma nessuno – nemmeno i cronometereologi quantici di Ginevra – poteva immaginare che quell’inverno non sarebbe finito.
Io ero a Courmayeur, inviato per raccontare la riapertura del Tunnel climatico del Monte Bianco, un corridoio automatizzato che collegava Francia e Italia con trasporto a levitazione adattiva. Quel giorno, mentre i ministri europei tagliavano il nastro tra flash e ologrammi, un drone sentinella del CNES intercettava la prima nube stratosferica proveniente da Est.
Il Toba aveva eruttato. I satelliti mostravano un vortice oscuro avvolgere l’Equatore. Quaranta ore dopo, il sole scomparve dietro un velo di cenere, e le Alpi cominciarono a tremare.
La prima neve verticale
A Cogne, Bard, Pré-Saint-Didier, il silenzio prese possesso di ogni spazio. Le strade sparirono. Le case-bolla, progettate negli anni ’50 per la residenza turistica di lusso, si trasformarono in trappole di ghiaccio. Molti cercarono rifugio nei rifugi ipogei, cavità scavate sotto i crinali già dagli anni ’40, durante la crisi climatica del Sahara europeo. Non tutti riuscirono a raggiungerli.
Il ghiaccio avanzava, scendeva dai versanti come un esercito bianco, incapsulando ogni cosa. Persino i lupi meccanici da pattugliamento smisero di funzionare: i loro circuiti si congelavano in pochi minuti. Le centrali fotoniche alpine divennero inutili, e il vento cominciò a portare sabbia vulcanica nera, mischiata alla neve.
La neve non era più bianca. Cadeva grigia, densa, carboniosa.
La Svizzera chiude i valichi
Quando il Governo Svizzero decise di chiudere ogni valico, la Val Formazza e la Val Vigezzo rimasero isolate. Le forze alpine italiane tentarono un collegamento con dirigibili crioprotetti, ma molti furono abbattuti dai turboventi ionizzati che soffiavano tra il Sempione e il Gran San Bernardo.
A Domodossola, i rifugiati dei paesi montani venivano accolti in ex hangar della Protezione Glaciale, riconvertiti in centrali umane a calore condiviso. Il principio era semplice: si dormiva in cerchi, alternando i corpi più giovani al centro, i più deboli ai margini. Ogni mattina si contavano i vivi e si registravano i dati biometrici con scanner oculari portatili. Si raccoglievano lacrime per estrarre acqua distillata.
Nacque lì la prima Fratellanza del Respiro, un movimento spirituale che predicava la cooperazione climatica assoluta, al di là di religioni, Stati, ruoli. Erano tutti uguali, quando fuori c’erano -27 °C e i fiocchi cadevano roventi di polvere vulcanica.
Le comunità di quota
Lontano dalle città, sopra i 1000 metri, alcune comunità scelsero di restare. Erano quelle più isolate, abituate all’autosufficienza. Ma nel gelo del 2069 l’isolamento divenne totale. A Macugnaga, Rhemes-Notre-Dame, Chamois, si viveva come nel 1300, ma con addosso tute termiche al grafene, cucite a mano da chi era riuscito a salvare vecchie stampanti 4D.
Ogni famiglia aveva un compito. I raccoglitori di neve pulita salivano all’alba per cercare fiocchi non contaminati da cenere. I custodi del fuoco accendevano le stufe a combustione mirata, dove ogni truciolo contava. Le nonne del silenzio raccontavano storie per tenere svegli i bambini e impedire che si addormentassero nel freddo, perché addormentarsi era pericoloso. Era come scomparire.
La Valle di Susa: luce dalle profondità
A Susa, Chiomonte e Bardonecchia, i vecchi tunnel dell’alta velocità vennero recuperati come basi operative di sopravvivenza. La galleria della Torino-Lione, mai completata, si rivelò la salvezza: un serpente di pietra profondo 30 metri, isolato termicamente, con depositi idrici naturali e un sistema di aerazione ancora funzionante.
Nel tunnel nasceva una nuova società. Si coltivava con lampade fotosintetiche a microenergia. Si cucinava in forni ionici. Si scriveva su pelli sintetiche trattate al freddo, poiché i chip impiantati erano inutilizzabili: il freddo li rendeva muti. La Parola tornò a valere più del codice. Si parlava. Si raccontava. La voce era tutto.
Le Valli Bergamasche: il ghiaccio verticale
Nelle Orobie, tra Clusone e San Pellegrino, la neve cadde con una violenza verticale mai registrata. I tetti esplosero, le coperture solari termoadattive si ruppero sotto il peso del ghiaccio. Ma fu proprio lì che nacque una delle più strane innovazioni del 2069: l’alveare termico.
Un ingegnere, Lucia Rasponi, progettò un sistema di abitazione modulare ispirato alla struttura interna degli alveari. Celle esagonali, isolate con lana compressa e resina organica, mantenute a 9 °C stabili grazie al calore corporeo umano combinato a flussi idrotermali. Ognuno aveva il proprio spazio, ma si viveva insieme.
Le valli tornarono a ruggire di vita, come alveari nelle grotte.
Le parole che si congelano
Nel Dicembre del 2069, qualcosa cambiò. I microfoni registravano silenzi assoluti, come se il gelo avesse cominciato a congelare anche il suono. Era una leggenda, ma se ne parlava ovunque: le parole emesse a voce alta si cristallizzavano nell’aria, galleggiavano, e cadevano come brina sonora.
A Livigno, un fisico raccolse campioni acustici solidificati: cristalli fonici, che al tocco rilasciavano echi di frasi. La notizia si diffuse tra i borghi alpini: la lingua si stava fossilizzando. Questo diede origine al “tempo del parlare piano”, un’abitudine collettiva che imponeva voce bassa, ritmo lento, per non sprecare calore e per non perdere parole nel ghiaccio.
I nuovi dei
Quando il freddo diventa eterno, anche la spiritualità cambia. Nacquero nuove divinità del ghiaccio, personificazioni dei fenomeni atmosferici: Sibilia, dea del fiocco eterno; Agar, spirito del fiume ghiacciato; Trasmute, colui che trasforma il calore in tempo. Le nuove religioni erano orali, trasmesse nei rifugi, nei bivacchi, come racconti.
Ogni comunità aveva il suo pantheon. A Valfurva, si onorava il “Fuoco che scelse l’uomo”, entità che avrebbe insegnato agli uomini come riscaldare il mondo con il pensiero. A Bormio, si celebrava l’“Ultimo sole”, ogni volta che una luce naturale filtrava tra le nubi per pochi secondi.
Il ghiaccio come memoria
Molti iniziarono a scrivere sul ghiaccio, a inciderlo con punte di rame e acido. Le pareti delle valli si coprirono di racconti, preghiere, formule, in un nuovo alfabeto criografico. Quando una valanga cancellava quei segni, si diceva che la memoria era stata letta.
Io stesso ho inciso i nomi di coloro che ho perso, nella parete sopra La Thuile. Non so se esistono ancora. Ma le lettere sono lì, a ricordare che anche nel gelo, si vive, si ama, si scrive.
Gennaio 2070: verso il nuovo confine
Ora sono a Ponte di Legno, e mi preparo a raggiungere il Passo del Tonale, dove i ghiacci del Nord incontrano quelli della Pianura Padana. I droni da traino sono carichi, il mio taccuino termico vibra ancora. La prossima tappa mi porterà tra le terre del Delta del Po, dove il fiume è diventato un fiume di cristallo, e le sue ramificazioni sono specchi infrangibili.
Io sono Ettore Zanella, e continuo a camminare nel freddo, perché raccontare è l’unico calore che ci resta.
Nella prossima puntata esplorerò la Pianura Padana congelata: da Piacenza a Ferrara, seguendo il Po ghiacciato e le nuove comunità fluviali nate sotto i ponti e nei canali dell’antica agricoltura sommersa.
Ghiaccio sulle Alpi: isolamento, silenzi e luce tra le vette del 2069