Francesca Contessini e la vita dopo il coma. Quando ricominciare è l’unica scelta possibile

Oggi Francesca Contessini racconta il suo percorso fatto di dolore, rinascita e accettazione, per rompere i tabù sulla disabilità e trasmettere un messaggio di forza e verità. Per comprendere davvero quanto profonda sia stata la trasformazione, però, bisogna fare un passo indietro. Prima dell’incidente, Francesca era una ragazza di 17 anni con una sensibilità profonda, […] The post Francesca Contessini e la vita dopo il coma. Quando ricominciare è l’unica scelta possibile appeared first on The Wom.

Apr 16, 2025 - 12:39
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Francesca Contessini e la vita dopo il coma. Quando ricominciare è l’unica scelta possibile
C’è un attimo in cui tutto cambia. Per Francesca Contessini, 33 anni, milanese, quel momento è stato un sabato sera di gennaio di 15 anni fa, quando un grave incidente l’ha portata in coma per 16 giorni. Al risveglio, la diagnosi è stata durissima: lesione spinale, fratture multiple, e una lunga riabilitazione, per imparare di nuovo a vivere con una disabilità motoria permanente, ricominciando tutto da zero. “Tenevo la mano sul tubo della respirazione. Finché sentivo l’aria passare, sapevo che ero viva”, racconta

Oggi Francesca Contessini racconta il suo percorso fatto di dolore, rinascita e accettazione, per rompere i tabù sulla disabilità e trasmettere un messaggio di forza e verità. Per comprendere davvero quanto profonda sia stata la trasformazione, però, bisogna fare un passo indietro.

Prima dell’incidente, Francesca era una ragazza di 17 anni con una sensibilità profonda, in lotta con sé stessa e con il mondo. Si sentiva fuori posto, sbagliata, come spesso capita a chi vive l’adolescenza con l’anima esposta, e credeva di aver trovato la soluzione definitiva al suo disagio. Non poteva immaginare, invece, che nel tentativo di perdersi, si sarebbe ritrovata — ma solo dopo essere andata in pezzi, come tutte le ossa del suo corpo — e che avrebbe dovuto ricostruirsi da capo, con un nuovo ordine, una nuova identità.

Intervista a Francesca Contessini

Puoi raccontarci del momento dell’incidente?

Sabato 3 gennaio è un sabato che è iniziato malissimo ed è finito ancora peggio. Possiamo dire che il mio è stato un grave incidente di percorso, a seguito del quale sono quasi morta. Però non ne parlo, per una scelta ben precisa: voglio parlare solo di quello che è successo dopo, cioè di essere rinata, dopo essere quasi morta. Di quel momento, ricordo solo il colpo e poi il buio, ma ero ancora cosciente quando, dall’asfalto, mi hanno presa e caricata sull’ambulanza. Sono rimasta cosciente fino all’arrivo
all’ospedale. L’ultima immagine che ho è quella di mio padre che, facendosi spazio tra i medici, mi dice sorridendo e con gli occhi rossi: ‘Forza Pizzocchera, tu ce la fai!’. Poi, il buio. Sedici giorni di coma.


Cosa ricordi di quei giorni? Hai avuto coscienza di essere in coma?

Il coma non è come nei film: non è solo assenza, è uno stato sospeso. Io sentivo. Non tutto, ma qualcosa. Sentivo la musica e la presenza di qualcuno vicino a me, anche se non capivo chi fosse, ma sapevo che non ero completamente sola. Io non capivo di essere viva, anzi, pensavo di essere morta e aspettavo che qualcuno venisse a prendermi da quel Purgatorio e mi portasse all’Inferno, dove credevo di meritare di andare a finire, visti i precedenti. Facevo molti sogni spaventosi, probabilmente per via del dolore intenso che sentivo per le fratture multiple che avevo riportato. I medici avevano consigliato ai miei genitori di mettere vicino al letto uno stereo con i CD che amavo. La musica era come un filo che mi teneva legata alla vita. Ero come sott’acqua: i suoni erano ovattati, ma presenti. Mi avevano portato un CD dei Green Day che era rovinato e saltava sempre su una nota. Quando mi sono svegliata, una delle prime cose che ho fatto è stato canticchiare proprio quella canzone: Wake me up when September ends… Tic. Mio papà ha capito subito: quel tic era il punto in cui il CD si inceppava. Ed era la prova che nel coma io sentivo.

Cosa hai provato appena ti sei svegliata?

Quando mi sono risvegliata, non ero più la stessa persona. All’inizio non capivo dove mi trovassi. Il mio corpo non rispondeva più: non potevo parlare né muovermi. Il risveglio è stato graduale, perché non ti svegliano mai tutto d’un colpo, ma diminuiscono i farmaci un po’ alla volta. Ricordo bene che la prima cosa che ho visto, aprendo gli occhi, sono stati i miei genitori e, anche se avevo il respiratore in bocca, sono riuscita a sussurrare “Vi voglio bene”.

L’aria che passa nel tubo della respirazione: è così che hai capito di essere ancora viva?

Sì, in un momento in cui non ero ancora completamente presente a me stessa con la testa e non potevo muovermi, tenevo la mano sul tubo della respirazione. I medici pensavano che volessi strapparmelo dalla bocca e mi spostavano continuamente la mano, ma io volevo tenerlo stretto, perché, finché sentivo l’aria passare, sapevo che ero viva. È stato in quel momento che ho capito che ero viva, ma anche che nulla sarebbe stato più come prima.

Quali sono state le sfide più grandi che hai dovuto affrontare dopo il coma?

Dopo il coma, il mio corpo non era più il mio. Ero prigioniera dentro di me. Il verdetto dei medici era chiaro: lesione spinale. Non potevo stare neanche seduta. Sei mesi a letto, senza poter alzare nemmeno la testa. Dicevano che sarei rimasta su una sedia a rotelle per sempre. La riabilitazione è stata lunga, durissima. Un anno in un centro specializzato, a ricostruire pezzo per pezzo il mio corpo e la mia identità. Ma dopo mesi di esercizi, è arrivato il primo passo, con la gamba destra. La sinistra ancora oggi non risponde bene. Ma la destra ce l’ha fatta. Non era guarigione. Non era un ritorno alla normalità. Era una nuova versione di me. È stata questa la cosa più difficile da accettare.

Eri arrabbiata con il tuo corpo e come l’hai superata?

All’inizio, mi sentivo tradita dal mio corpo. Ero furiosa con il mondo, con Dio, con me stessa. Mi dicevo che non ero una disabile, ero solo in pausa, che prima o poi sarei tornata quella di prima. Ma la me di prima non esisteva più. Ho dovuto attraversare quel dolore per ricostruirmi. Lentamente, ho smesso di combatterlo e ho iniziato a comprenderlo e, soprattutto, accettarlo. La psicoterapia mi ha aiutata molto: come prima cosa ho capito di essere stata fortunata, nonostante tutto. Con il tempo, poi, ho capito anche che la carrozzina non era il nemico, ma uno strumento utile per poter fare le cose che voglio, anche quando le mie gambe non reggono. Io cammino, ma non sempre. Se serve, la uso, ma sicuramente né la carrozzina né la mia disabilità mi definiscono e non mi categorizzano. Lo fa quello che scelgo di fare ogni giorno.

L’amore che non giudica e i tuoi compagni di vita: chi sono Leoncino e Guglielmo? Che ruolo ha avuto Leoncino nella tua ripresa?

Leoncino è il mio Labrador color cioccolato e ha una condizione particolare anche lui: soffre di displasia. È arrivato in un momento in cui io avevo già raggiunto un buon equilibrio personale, ma ha aggiunto qualcosa che mi mancava: la leggerezza. Lui mi ha riportato la luce. Nei ‘giorni del dolore’, quelli in cui anche i farmaci non bastano, si sdraia accanto a me e resta lì. Mi porta il suo pupazzo, mi osserva con i suoi occhi profondi, e senza dire nulla, mi dice tutto. Lui mi insegna ogni giorno che la vita è nel momento presente, che non serve avere tutte le risposte, basta esserci. Gli animali hanno un potere immenso nel nostro benessere. Prima di Leoncino, nella mia vita è arrivato Guglielmo, il mio compagno da dieci anni. Le persone che ti amano davvero ti amano per quello che sei, in toto, pacchetto completo: carrozzina, stampelle, piede ricostruito. Ti amano proprio perché sei in quel modo. E la mia disabilità fa parte di me. Guglielmo mi ha sempre vista intera, sin dal primo incontro. Non mi ha mai fatto pesare la mia condizione, né l’ha mai vista come un ostacolo. Mi ha amata dall’inizio per quella che sono, con le mie fragilità e la mia forza. Lui è l’amore della mia vita e il mio punto fermo. E oltre a lui, posso contare anche su Piercarlo, il mio papà.

C’è stato un momento in cui hai sentito di aver ritrovato un pezzo della “te” di prima o vorresti dimenticarla?

No, non vorrei dimenticarmi la me di prima del coma, anche se per tanti anni ho odiato profondamente quella ragazza di 17 anni per quello che mi ha fatto passare. Oggi, però, a 33 anni, so che quella era una parte di me che si è evoluta nella persona adulta, serena, equilibrata che sono adesso. Quella Franci diciassettenne, con tutte le sue infinite fragilità e tutti i suoi problemi ha fatto di me l’adulta che sono in questo momento, e mi piace.

Qual è stata la cosa più sorprendente che hai scoperto su te stessa durante questo viaggio?

Forse, la cosa più sorprendente è stata capire che le fragilità interiori che pensavo mi penalizzassero tantissimo in questa vita, dovevano solo essere rilette e rimesse in una cornice e che proprio quella fragilità e quella sensibilità che aveva la Francy di 17 anni sono diventate la forza dell’adulta che sarei
diventata anni dopo: solo quando ho iniziato ad accettare il fatto che avevo un corpo fragile e una mente ancora più fragile ha iniziato a fiorire quella che adesso è forza e amore per me stessa.

Perché hai deciso di condividere il tuo percorso sui social?

Sui social sono @francy.e.leoncino e ho deciso di raccontare la mia storia per trasmettere un messaggio chiaro: voglio dare un’immagine diversa della disabilità, perché voglio far vedere che non siamo solo storie di sofferenza. Inoltre, mostro la mia vita vera, senza filtri, perché avrei voluto vedere qualcuno farlo quando ero più giovane, per sapere che non ero sola. A 17 anni non ho trovato negli adulti le risposte di cui avrei avuto bisogno. Parlo di scuola, di insegnanti che non si accorgono delle fragilità dei ragazzi e dei loro silenzi: i ragazzi hanno bisogno di essere visti e di un adulto che dica: ‘Ti vedo, so che non stai bene.

Come vivi l’essere considerata un’ispirazione?

Essere considerati ‘un esempio’ può sembrare positivo, ma spesso significa che la società vede la disabilità come qualcosa di straordinario da affrontare, quando invece è solo un modo diverso di vivere. Non voglio che la mia storia sia letta con pietismo, voglio che serva a far capire che tutti abbiamo la possibilità di riprenderci, in modi diversi. La differenza, la fa cosa decidi e scegli di fare dopo. Io ho scelto di vivere.

Se tu oggi potessi parlare alla Francesca di 17 anni, cosa le diresti?

Fino a non molto tempo, fa ti avrei risposto che l’avrei presa a schiaffi (ride), ma non è vero. Oggi le direi che va tutto bene, di non avere paura: ci sta avere dei momenti in cui non si è lucidi, sentirsi persi, arrabbiati, confusi o fragili, ma da quel caos nascerà qualcosa di grande; che la sua vita non è finita, sta solo cambiando forma e dopo ci sarà una versione di lei che saprà prendere la sua fragilità incapsularla e proteggerla dal resto del mondo.

E alla Francesca che si è svegliata dal coma e lottava per riprendersi?

Le direi che sarà durissima, ma che ce la farà e che la disabilità non è una tragedia, ma solo un modo diverso di essere. E un giorno capirà quanto è forte.

Cosa diresti a chi sta lottando con un evento traumatico?

È una cosa che ho compreso solo da adulta. Non importa quale sia la battaglia. Può essere una malattia, un trauma, una perdita, un dolore che sembra insormontabile. Il trauma ti blocca, ti incatena, ti impedisce di andare avanti. Ma se lo attraversi e lo accetti, scopri che dall’altra parte non c’era quel grande pericolo che immaginavi: il blocco non era uno sbarramento, ma si poteva oltrepassare. Accettare tutta me stessa per quello che sono, disabilità compresa, è il modo per andare avanti e oltre. Accettare non significa arrendersi o rassegnarsi, ma smettere di combattere contro sé stessi e iniziare a costruire, pezzo dopo pezzo, respiro dopo respiro.

Finché c’è aria, c’è vita.

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