Così gli esponenti della campagna Libertà per Marwan Barghouti ci hanno raccontato la realtà di Gaza

Occhi in Palestina non è solo una missione di testimonianza, di osservazione, di racconto. È una missione politica e come tale si nutre di incontri e dialoghi con quelle voci che, da una parte e dall’altra, tentano con incrollabile coraggio di tenere viva la speranza in una pace giusta. Con Ofer Cassif, Aiman Odeh e […] L'articolo Così gli esponenti della campagna Libertà per Marwan Barghouti ci hanno raccontato la realtà di Gaza proviene da Il Fatto Quotidiano.

Apr 30, 2025 - 18:36
 0
Così gli esponenti della campagna Libertà per Marwan Barghouti ci hanno raccontato la realtà di Gaza

Occhi in Palestina non è solo una missione di testimonianza, di osservazione, di racconto. È una missione politica e come tale si nutre di incontri e dialoghi con quelle voci che, da una parte e dall’altra, tentano con incrollabile coraggio di tenere viva la speranza in una pace giusta.

Con Ofer Cassif, Aiman Odeh e Aida Touma-Sliman beviamo diversi caffè e thè alla menta, come vecchi amici, parlando per ore. Sono tutti membri della Knesset, il parlamento israeliano, esponenti della coalizione di sinistra Hadash-Ta’al, che include oltre sessanta organizzazioni ebraiche e arabe anti-occupazione, impegnate nella pace e nella difesa dei diritti umani di israeliani e palestinesi. Ofer è il deputato che il 7 novembre 2024 fu espulso per sei mesi dalle riunioni plenarie e dalle commissioni parlamentari per aver osato chiamare “genocidio” quanto avviene a Gaza. Come Touma-Silman, era già stato sospeso a causa delle posizioni critiche nei confronti dell’occupazione militare israeliana.

Ci raccontano l’altra faccia del genocidio a Gaza e della pulizia etnica nella West Bank: la situazione interna di Israele, la progressiva fascistizzazione del governo e il tentativo di Hadash, unico partito ebreo-palestinese e da sempre minoranza ideologica, di opporsi in Parlamento in una condizione divenuta di estremo isolamento dopo il 7 ottobre.

È in atto una vera e propria persecuzione politica che colpisce prima di tutto gli arabi, ma anche i cittadini ebrei israeliani: dalla professoressa universitaria palestinese con cittadinanza israeliana Nadera Shlov Kiborkian, arrestata per aver espresso sui social solidarietà alla popolazione di Gaza, all’insegnante di liceo Meir Baruchin, ebreo israeliano, licenziato, tenuto quattro giorni in arresto con l’accusa di tradimento e terrorismo, privato della licenza all’insegnamento per aver pubblicato immagini di bambini uccisi a Gaza.

Ci sono le sospensioni e i tentativi di impeachment per i parlamentari che – come loro – hanno sostenuto l’apertura del caso di genocidio davanti alla Corte internazionale di giustizia. Ma ancor più grave e senza forme di difesa o immunità è la violenza sui cittadini comuni da parte dei gruppi di estrema destra e della stessa polizia. Solo poche ore prima – ci raccontano – le forze dell’ordine sono intervenute con la forza durante una manifestazione in cui sono state mostrate foto di bambini uccisi a Gaza. La “marcia del ritorno” prevista per l’altro ieri, organizzata ogni anno da 27 anni dai palestinesi in Israele nel giorno dell’indipendenza, per ricordare la Nakbah e il diritto al ritorno per tutti palestinesi, non ha ottenuto il permesso di svolgersi. La polizia ha minacciato apertamente di attaccare la manifestazione se qualcuno avesse alzato una bandiera palestinese. Lo scorso anno, in occasione delle mobilitazioni del 1° maggio, la polizia ha attaccato gli uffici di Hadash, arrestato persone, distrutto e confiscato oggetti. La persecuzione non risparmia neanche le famiglie degli ostaggi che si sono esposte contro il genocidio, ostaggi che il governo ha deciso cinicamente di sacrificare sull’altare della nazione.

Eppure, la stretta autoritaria del regime israeliano è cominciata ben prima del 7 ottobre, in particolare con la riforma della giustizia, un vero piccolo colpo di stato per modificare la composizione dei giudici della Corte suprema, rompere il sistema di checks and balances e accentrare il potere nelle mani dell’esecutivo. Tutto ciò non ha niente a che fare con la reazione al 7 ottobre, è parte della strategia del governo non solo per occupare i territori ma per annetterli. Sulla stessa scia, il licenziamento del capo dello Shin Bet (servizio di sicurezza generale) Ronen Bar e la mozione di sfiducia nei confronti della Procuratrice generale Gali Baharav-Miara. Insieme a tutto questo, dal 7 ottobre, un numero senza precedenti di leggi restrittive dei diritti civili e umani, passate alla Knesset nel nome della difesa dello Stato dal terrorismo. Insieme alle demolizioni di case e al taglio dei fondi per le municipalità che portano avanti progetti solidali per i palestinesi.

Ho molto timore. Memori del nostro passato, abbiamo la sensazione di non essere lontani dal delitto Matteotti, da una guerra civile che potrebbe arrivare perfino nelle strade di Tel Aviv. Spero di sbagliarmi, ma c’è la consapevolezza, nelle parole drammatiche che ascoltiamo, che il momento storico sia il più drammatico dai tempi della Nakbah, quasi peggiore – nella memoria degli anziani – degli anni fra il ’48 e il ’56, quando agli arabi di Israele era applicato il regime militare. Una catastrofe che non sarà solo palestinese, come nel 1967, ma che resterà senza vincitori, con una ferita e una perdita insanabili per entrambi i popoli. Una ferita che già si legge nelle analisi sul 52% della gioventù israeliana che soffre di depressione.

Eppure, c’è anche la speranza nella crisi di un governo segnato da scandali incessanti e da un crescente malcontento, con circa il 70% dei cittadini israeliani contrari alla continuazione della guerra e la maggioranza scontenta dell’esecutivo e di Netanyahu stesso. E c’è la lucidità di capire che anche dopo l’ecatombe di Gaza, 7 milioni e mezzo di palestinesi resteranno nelle terre dal fiume al mare. La riconciliazione è l’unica strada possibile.

La Francia – ci ricordano i nostri colleghi di Gerusalemme – a giugno potrebbe riconoscere lo Stato palestinese. Sarà un grande passo e dovrebbe diventare un’opportunità per l’Italia di avere un ruolo, un ruolo giusto, in questa storia.

A Ramallah incontriamo alla sede della Palestinian Medical Relief Society Mustafa Barghouti, medico, attivista e politico. Mustafa è il fondatore e il Segretario generale di Palestinian National Initiative, una formazione che alle prossime elezioni potrebbe diventare molto forte fra i palestinesi. Ci eravamo conosciuti a Roma, non tanto tempo fa, ed è un piacere sentire la sua voce così autorevole rimettere in fila i fatti e i passaggi politici degli ultimi mesi. Nelle stesse ore riusciamo a incontrare i rappresentanti della campagna Libertà per Marwan Barghouti e dei prigionieri politici palestinesi: i membri di Fatah Fadwa e Arab Barghouti (moglie e figlio di Marwan) – lei a capo della campagna per la liberazione del marito e degli altri prigionieri politici palestinesi -, i membri del Club dei prigionieri politici palestinesi Qadoura Fares e Ahmad Ghneim, e Jamal Zakut, direttore di Al’ard, il festival che promuove cultura e arte arabe e palestinesi.

Mustafa, come in un documentario di guerra, ci racconta la realtà di Gaza e lo fa con numeri e proporzioni. Comprendo che tre tipi di crimini di guerra sono in atto: in primo luogo, il vero e proprio genocidio, che al momento ha causato 61mila morti (inclusi 10mila dispersi che non potranno mai essere tirati fuori dalle macerie), fra cui 18mila bambini, e 117mila feriti dei quali – si prevede – circa 11mila moriranno per assenza di cure. Significa che a Gaza il 10% della popolazione è deceduto o è stato ferito: una percentuale che in Italia corrisponderebbe a 6 milioni di persone, negli Usa a 33 milioni. Tutto questo in 18 mesi. 100mila tonnellate di esplosivo sono state gettate su Gaza, 5 volte quelle usate per Hiroshima e Nagasaki, 50 kg di esplosivo per ogni persona.

Il secondo crimine di guerra consiste nella punizione collettiva della fame imposta: da 58 giorni a Gaza non entra nulla, né pane, né acqua, né medicinali. I membri dello staff medico si nutrono di scatolette, la privazione del cibo è accompagnata dall’assenza di vaccini. Una vera guerra biologica che ha già generato lo scoppio di epidemie, con 112mila casi di epatite, e probabili focolai futuri di poliomielite, tetano, difterite. Il terzo crimine è la pulizia etnica, l’obiettivo principale di Netanyahu: nella Striscia ci sono famiglie che sono già state costrette a spostarsi 16 volte. Intanto, nella West Bank già prima del 7 ottobre era in corso una campagna senza precedenti di nuovi insediamenti: dal giorno dell’attentato sono stati uccisi circa 1000 palestinesi e confiscate terre per un’area grande due volte la Striscia di Gaza, in un’escalation senza precedenti; con 29 nuovi insediamenti, su un totale di circa 330, Israele controlla ormai più del 65% della Cisgiordania.

Circa 1000 check point e cancelli nuovi sono stati imposti, chiudendo nei villaggi come in piccole prigioni le persone sotto assedio. Dal 7 ottobre, circa 18mila palestinesi sono stati arrestati, nell’ultimo anno e mezzo 68 sono morti nelle carceri sotto tortura, inclusi 2 medici. Nei campi profughi – Jenin, Tulkarem, Nur Shams – dove vivono persone rifugiate dal 1998, la pulizia etnica si scatena contro chi non ha più nulla.

Purtroppo, l’obiettivo politico del governo israeliano appare chiaro. Ancora di più, ai nostri occhi, dopo questi confronti: continuare la guerra, forzare le persone a lasciare Gaza, togliere una volta per tutte dal tavolo delle trattative la creazione di uno Stato palestinese, annettere la Cisgiordania, godendo della copertura dell’amministrazione Trump. Ma anche, e per nulla celato, c’è il progetto di Israele di ergersi a nuova potenza imperiale in Medioriente: lo ha mostrato attaccando la Siria, il sud del Libano, minacciando la Giordania, mettendo nel mirino lo Yemen. Molti soldati israeliani a Gaza girano con appuntata sulla spalla la mappa del grande Israele: confini che includono la West Bank, Gaza, la Giordania, il lato ovest dell’Eufrate in Iraq, la parte est del Nilo in Egitto, il nord dell’Arabia saudita, il sud di Siria e Libano. Di fronte a tutto questo, restano lettera morta decine e decine di risoluzioni della Corte internazionale di giustizia, dell’Assemblea generale e del Consiglio di sicurezza dell’Onu, con una lacerazione del diritto internazionale e del diritto umanitario senza precedenti dalla Seconda guerra mondiale.

Di fronte a tutto questo, è ancora praticabile la soluzione “due popoli, due Stati”? Di sicuro, ora l’urgenza è fermare il genocidio, imponendo un cessate il fuoco. E purtroppo anche all’interno della politica palestinese la situazione è grave e segnata da divisioni. Soprattutto, il sistema di apartheid messo in piedi da Israele a oggi ha distrutto la possibilità di uno Stato palestinese e ucciso la soluzione dei due Stati. 7.3 milioni di palestinesi vivono nella storica Palestina al fianco di 7.1 ebrei, ma il governo israeliano non vuole due Stati, né un unico Stato democratico con diritti uguali per tutti: vuole conquista e pulizia etnica. Tuttavia, chiunque parli di due popoli e due Stati deve chiedere la fine dell’occupazione, la rimozione degli insediamenti illegali e il riconoscimento dello Stato di Palestina, se non vuole suonare ipocrita. Deve chiedere sanzioni per Israele e battersi realmente per l’autodeterminazione di un popolo che non può accettare di essere schiavo in un regime di apartheid.

Marwan Bargouthi, colui che potrebbe guidare un vero processo di pace, è in carcere ormai da 23 anni, di cui molti trascorsi in isolamento. Gaza sta morendo, in un genocidio in diretta che i governi del mondo coprono, le voci che abbiamo ascoltato ci hanno chiesto di fare di tutto per impedirlo. Bargouthi rischia di morire prigioniero. E dovremmo fare di tutto per salvargli la vita. Marwan Bargouthi è il primo parlamentare palestinese incarcerato. È responsabilità di tutti i parlamentari del mondo farlo uscire dal carcere vivo, come il leader che ancora tutti e tutte qui riconoscono. Forse non basterebbe un Mandela palestinese. Ma di certo il mondo ne avrebbe tanto bisogno.

L'articolo Così gli esponenti della campagna Libertà per Marwan Barghouti ci hanno raccontato la realtà di Gaza proviene da Il Fatto Quotidiano.