Complicanze chirurgiche: quando il medico non risponde dei danni al paziente
Il Tribunale di Catania ha fatto chiarezza sui confini della responsabilità medica in caso di complicanze chirurgiche, fornendo importanti precisazioni sul delicato equilibrio tra l’alea terapeutica e gli obblighi professionali del sanitario. La decisione del Tribunale si inserisce nel solco di un orientamento giurisprudenziale che cerca di bilanciare la tutela del paziente con la necessaria […] L'articolo Complicanze chirurgiche: quando il medico non risponde dei danni al paziente proviene da Iusletter.


Il Tribunale di Catania ha fatto chiarezza sui confini della responsabilità medica in caso di complicanze chirurgiche, fornendo importanti precisazioni sul delicato equilibrio tra l’alea terapeutica e gli obblighi professionali del sanitario.
La decisione del Tribunale si inserisce nel solco di un orientamento giurisprudenziale che cerca di bilanciare la tutela del paziente con la necessaria considerazione dell’alea intrinseca all’attività medica.
Il caso riguardava una paziente che, sottoposta a due interventi chirurgici addominali, lamentava danni funzionali ed estetici, chiamando in causa sia la struttura sanitaria che i medici operanti.
Il punto centrale della decisione ruota attorno al concetto di “complicanza chirurgica“, definita come un evento dannoso, accidentale o anomalo che può insorgere durante un intervento, aggravando le condizioni del paziente.
La sentenza chiarisce che non tutte le complicanze generano automaticamente responsabilità medica: il discrimine sta nella loro prevedibilità ed evitabilità nel caso concreto.
Il Tribunale ha ribadito che la responsabilità della struttura sanitaria ha natura contrattuale, mentre quella del medico, dopo la Legge Gelli-Bianco del 2017, è di tipo extracontrattuale. Questo comporta che la struttura risponde sia per fatto proprio (carenze organizzative) che per l’operato dei sanitari, anche se non dipendenti.
Un altro passaggio fondamentale della sentenza riguarda l’onere della prova: al medico non basta dimostrare che l’evento rientri astrattamente tra le complicanze statisticamente possibili.
Deve invece provare di aver tenuto una condotta conforme alle leges artis e che il danno fosse in concreto imprevedibile o inevitabile.
Al paziente spetta invece dimostrare il nesso causale tra la condotta e il danno subito.
Nel caso esaminato, la CTU ha accertato sia la corretta indicazione terapeutica che l’esecuzione dell’intervento secondo le linee guida.
Le complicazioni verificatesi sono state qualificate come “prevedibili ma inevitabili”, escludendo così la responsabilità dei sanitari e della struttura.
La sentenza affronta anche il tema del consenso informato, precisando che la sua violazione può fondare una pretesa risarcitoria solo se il paziente prova che, adeguatamente informato, avrebbe rifiutato l’intervento, o se dimostra di aver subito un pregiudizio non patrimoniale di apprezzabile gravità derivante dalla lesione del diritto all’autodeterminazione.
Inoltre, ha il merito di fornire criteri chiari per distinguere tra complicanze che generano responsabilità e quelle che rientrano nel rischio terapeutico accettabile.
La pronuncia offre anche un’utile ricognizione del riparto dell’onere probatorio, chiarendo che il medico non può trincerarsi dietro la mera statistica delle complicanze, ma deve dimostrare la correttezza del suo operato nel caso specifico.
Possiamo affermare che la sentenza contribuisce a delineare un sistema di responsabilità medica equilibrato, che tutela il paziente senza trasformare il medico in un assicuratore del risultato terapeutico, preservando così quello spazio di rischio ineliminabile che caratterizza l’arte medica.
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