C’è una nuova puntata del Trump vs TikTok. Ed è chiaro che ci siano grossi interessi in ballo

Nessuno più di Trump ha saputo imporsi sulla scena dei social ed impiegarli come strumento vincente nelle proprie battaglie elettorali (e post-elettorali). Qualcuno ha malignato che, tra le piattaforme esistenti, quella in cui ha sfondato di meno – almeno nella prima campagna elettorale – è stata TikTok, e forse è per non aver mai digerito […] L'articolo C’è una nuova puntata del Trump vs TikTok. Ed è chiaro che ci siano grossi interessi in ballo proviene da Il Fatto Quotidiano.

Mar 22, 2025 - 09:23
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C’è una nuova puntata del Trump vs TikTok. Ed è chiaro che ci siano grossi interessi in ballo

Nessuno più di Trump ha saputo imporsi sulla scena dei social ed impiegarli come strumento vincente nelle proprie battaglie elettorali (e post-elettorali). Qualcuno ha malignato che, tra le piattaforme esistenti, quella in cui ha sfondato di meno – almeno nella prima campagna elettorale – è stata TikTok, e forse è per non aver mai digerito questa conquista dimidiata che, dal 2020, Trump ha ingaggiato con l’app cinese una guerra che ancora non si è conclusa.
Sì, perché sebbene nell’ultimo atto di questa saga il Presidente, tornato alla Casa Bianca, si sia agevolmente intestato il ruolo di salvatore della libertà di espressione di tutti i tiktokers d’America, in realtà, è stato proprio lui ad adottare le prime misure restrittive. E quelle che sono venute dopo, con la Presidenza Biden, – e che poi, ultimamente, lui stesso ha sospeso – non sono niente altro che la riproposizione delle prime, con irrilevanti differenze.

Era stato Trump, infatti, nell’estate del 2020 ad adottare dei provvedimenti esecutivi con cui prima si impedivano relazioni di natura commerciale con la società cinese ByteDance, e poi si intimava ad essere di vendere o trasferire l’algoritmo di TikTok ad una società statunitense libera dagli obblighi della legge cinese, tra cui quello di collaborare con l’intelligence della Repubblica Popolare, laddove richiesta.

Quella invocata era, infatti, una ragione imperativa di sicurezza nazionale. Da un lato, impedire che un governo straniero, e nemico, potesse entrare in possesso dei dati dei cittadini americani con un’utenza attiva su TikTok, e dall’altro evitare che il controllo cinese dell’algoritmo potesse inquinare il “mercato delle idee” americano. Trump, sul punto, era stato chiarissimo: “La piattaforma potrebbe essere utilizzata per campagne di disinformazione a vantaggio del Partito Comunista Cinese”.

Pare, tuttavia, che la misura superasse i limiti imposti dalla legge al potere esecutivo, e, così, pochi mesi dopo, la società otteneva l’annullamento giudiziario dell’ordine del Presidente, che però ci riprovava con un nuovo Executive Order che obbligava ByteDance a cedere tutti i diritti su ogni proprietà impiegata per rendere possibile o supportare le sue operazioni relative a TikTok.

A sospendere tutto, interveniva l’arrivo alla Casa Bianca del nuovo Presidente Biden. Il giudice, investito di nuovo della questione sulla legittimità dell’ultimo Executive Order di Trump, infatti, sospendeva la vicenda, per consentire una negoziazione tra la società cinese e la nuova amministrazione. Non proprio un successo, se si considera che, ad aprile 2024, il Congresso chiudeva ogni trattativa, e approvava con un consenso bipartisan una legge che banna ogni “foreign adversary controlled application”, e, perché nulla resti equivoco, si premura di classificare direttamente come tale la piattaforma social cinese.

L’unico a poter intervenire è il Presidente, il quale ha la possibilità di sospendere il termine di entrata in vigore del divieto previsto dalla legge, quando ha certificate ragioni di ritenere che sia in corso un processo per arrivare ad una “cessione qualificata” sufficiente a garantire che l’app non sia più sotto il controllo da uno Stato straniero nemico.

La legge – nelle settimane di transizione tra l’amministrazione Biden e la nuova di Trump – è stata oggetto anche di scrutinio da parte della Corte suprema, che, senza dissenso al suo interno, ne ha confermato la costituzionalità. Per il collegio, infatti, l’interesse pubblico alla sicurezza nazionale sarebbe sufficiente a ritenere superato positivamente il test di legittimità richiesto da misure restrittive della libertà di espressione (almeno quelle che non discriminino quanto al contenuto dell’espressione, come parrebbe in questo caso). Né si potrebbe affermare che il divieto previsto dal Congresso sia una misura sproporzionata, tanto più che può essere evitato con una “cessione qualificata” dell’app.

Le argomentazioni della Corte non sono del tutto inattaccabili, ma forse quello che è prevalso è stata la ragione politica di non andare contro delle misure, una volta tanto, così ampiamente condivise, e peraltro giustificate da preoccupazioni largamente partecipate dall’opinione pubblica.

La sentenza è del 17 gennaio, e il 19 gennaio era la data prevista dalla legge in cui sarebbe dovuto diventare effettivo il divieto. Ma poi è arrivato Trump, che ha concesso una sospensione del termine, fino al 5 aprile: 75 giorni, rispetto ai 90 consentiti dalla legge; dunque lasciandosi la possibilità di una dilazione ulteriore.

Naturalmente, c’è un muro invincibile di silenzio intorno alle operazioni che la società cinese sta portando avanti in queste settimane. Qualche giorno fa, Trump ha riferito che ByteDance è in trattative con quattro gruppi diversi, per la vendita di TikTok ad americani. Così l’app non sarebbe più una “foreign adversary controlled application”. Ed è chiaro che anche l’impero economico di Trump – oltre che dei suoi accoliti – ha i suoi interessi nella vicenda. D’altra parte, ha aperto lui la partita, e finora ha avuto la fortuna di condurla portando a casa tutto quello che poteva portare, anche grazie ad un aiuto bipartisan e alla tutela della Corte suprema: risultato ottenuto, e faccia da custode delle libertà di espressione salvata.

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