Bastonare Zelensky come varo dell’Internazionale reazionaria dei Trump e dei Milei
Lo svillaneggiamento del presidente ucraino Zelensky da parte di Donald Trump e del suo vice James David Vance nella sede ufficiale del potere imperiale americano – la Casa Bianca – comunica ufficialmente che il mondo a Occidente attraversa un’inversione drastica nei propri fondamenti – tanto di forma come di sostanza – costitutivi di una civiltà […] L'articolo Bastonare Zelensky come varo dell’Internazionale reazionaria dei Trump e dei Milei proviene da Il Fatto Quotidiano.

Lo svillaneggiamento del presidente ucraino Zelensky da parte di Donald Trump e del suo vice James David Vance nella sede ufficiale del potere imperiale americano – la Casa Bianca – comunica ufficialmente che il mondo a Occidente attraversa un’inversione drastica nei propri fondamenti – tanto di forma come di sostanza – costitutivi di una civiltà consolidata nei secoli. E se – come è stato detto – il leader americano, oggi insediato nella Stanza Ovale, depura dell’ipocrisia l’essenza stessa della politica stelle-e-strisce, francamente questa non appare una notizia rassicurante: le buone maniere sono largamente intrise di formalismi ipocriti, fermo restando che diventano la primaria condizione della convivenza possibile; che una presunta genuinità di modi, tendente al brutale, mette immediatamente a repentaglio.
Dunque, un freno nei confronti delle cattive maniere, che indurrebbe a evitare l’essenza di quanto avvenuto venerdì scorso: lo spettacolo osceno dell’irrisione di chi è costretto a subire; in balia dell’energumeno come un omino di Charlot. E non per una concezione meramente caritatevole della vita e delle relazioni tra umani, bensì in quanto fondamentale dettato della prima teoria politica che fece da battistrada all’avanzata del pensiero democratico: il Repubblicanesimo, vanto dei liberi comuni nell’Italia medievale, che si scopriva “terza” tra Chiesa e Impero. L’affermazione delle virtù civiche contro l’avanzata dei signori. Ossia il divieto di umiliare l’inerme come messa al bando della tirannide.
Guarda caso, la tradizione a cui si ispiravano i Padri Fondatori dell’esperimento americano, i quali parlano sempre di repubblica e quasi mai di democrazia. Un prezioso portato storico brutalmente accantonato da Trump, quale affermazione della superiorità della forza rispetto alla funzione di contenimento delle regole. Una prima rottura a cui fa seguito – in quanto disvelamento della sua ragione retrostante – la seconda: lo schiaffo all’omino di Kiev e la patente di insignificanza attribuita all’Unione Europea come passaggi obbligati per il superamento del paradigma geopolitico competitivo, sino a ieri dominante per larga parte del Novecento, fattosi parossistico nel secondo dopoguerra come Guerra Fredda. Ossia l’inconciliabile antagonismo tra Est e Ovest, tra capitalismo democratico e socialismo totalitario. Dunque, la sceneggiata della Casa Bianca come invito a Vladimir Putin a considerarsi il nuovo interlocutore privilegiato della Washington trumpiana.
Un tentativo per rompere la connection Mosca-Pechino o non – piuttosto – la traduzione politica di affinità che emergono con l’antropologia che accomuna il nuovo ceto dominante a livello mondiale? Certo, giocano affinità biografica tra due dichiarati criminali – quali il russo e l’americano – cui si aggiungono leggende metropolitane di salvataggi del pericolante impero economico dell’immobiliarista newyorchese grazie a fideiussioni bancarie e prestiti di provenienza moscovita: un lungimirante investimento putiniano su un futuro potente altamente condizionabile?
Ma anche – di certo – la comunanza culturale e di mentalità che va a costituire una sorta di base ideologica della nuova Internazionale della restaurazione reazionaria in atto. E di cui andranno ricostruiti i connotati, sino ad oggi oggetto esclusivamente di esecrazione o apprezzamento: una sorta di pensiero elementare che trae ispirazione dalla vittoria della plutocrazia affaristica sulla democrazia, nel passaggio come valore dominante nell’apparato di pensiero egemone dell’avidità. A scapito del principio di solidarietà inclusiva che caratterizzò la stagione ispirata dalla solidarietà keynesiana, tradotta nei venerabili esperimenti chiamati Stato Sociale nell’America del New Deal e Welfare State nell’Europa del secondo dopoguerra. Spazzati via dalla vittoria, nella guerra civile combattuta nell’ultimo quarto del XX secolo, non dai ricchi bensì dagli arricchiti.
Su cui il sociologo Charles Wright Mills scriveva che “i gruppi installati al gradino più alto sono orgogliosi, quelli non ancora arrivati sono soltanto vanitosi”. Sicché, se i primi sono portati a una distaccata benevolenza nei confronti dei sottoposti, le nuove ricchezze esprimono un’aggressività dipendente dalla sensazione di precarietà che discende da fortune di recente conio e incerta origine. Quel cambio di umore nello spirito del tempo che impronta la nuova Internazionale in rapido consolidamento dei Trump, dei Putin, dei Milei, degli Orban e – ovviamente – della Meloni. Il nuovo soggetto dominante che canalizza l’alleanza a blocco storico di abbienti e impauriti. Innanzi al quale l’Europa unita smarrisce ancora una volta la propria ragione di esistere negli insulsi giochi di corridoio che promuovono leadership sedicenti, o meglio inconcludenti, come quella dell’animula vagula Ursula von der Leyen.
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