Università in crisi: tra neoliberismo, elitismo e perdita del pensiero critico
Stamani, di fronte all’ennesimo articolo che delegittimava il ruolo del dottorato di ricerca, attaccava i cosiddetti privilegi degli statali e denunciava lo sperpero dei fondi pubblici, mi sono deciso a […]

Stamani, di fronte all’ennesimo articolo che delegittimava il ruolo del dottorato di ricerca, attaccava i cosiddetti privilegi degli statali e denunciava lo sperpero dei fondi pubblici, mi sono deciso a scrivere due brevi parole su quanto sta succedendo all’Università italiana.
La nomina di Ernesto Galli della Loggia a presidente di una commissione ministeriale per la riforma dell’università, con la presenza di figure come Alberto Mingardi dell’Istituto Bruno Leoni, conferma una tendenza verso un modello accademico neoliberale sempre più orientato alla selezione competitiva e alla razionalizzazione dell’offerta formativa. Confermando ancora una volta un attacco all’Università iniziato dalla riforma del ministro Ruberti, per poi passare alla Gelmini, per finire oggi con la Bernini. La sedicente competizione, invece di favorire un’eccellenza diffusa, ha accentuato le disparità tra istituzioni, concentrando risorse nelle università più forti e penalizzando le altre.
L’università è diventata sempre più subordinata alle logiche del mercato, con la ricerca orientata verso settori ritenuti economicamente redditizi e le discipline umanistiche progressivamente marginalizzate. Questo riflette una visione neoliberale, che vede l’Università principalmente come una fabbrica di capitale umano da integrare nel mercato del lavoro.
Il valore del sapere viene così misurato in termini di impatto economico, trasformando la produzione culturale in un semplice output valutabile in base alla quantità piuttosto che alla qualità. Questo processo ha portato a un modello che imita le università anglosassoni più competitive, ma senza garantirne adeguati meccanismi di finanziamento, aggravando il problema del sotto-finanziamento e accentuando le disuguaglianze tra atenei. Anche la didattica ne risente, con corsi semplificati per garantire lauree rapide e studenti costretti a un ritmo serrato che ostacola lo sviluppo di un autentico pensiero critico.
Queste dinamiche hanno minato l’autorevolezza dell’università, rendendola sempre più distante dalla società. L’opinione pubblica la percepisce come un’istituzione inefficiente, gli studenti la vivono come un passaggio obbligato per ottenere un titolo.
Lo storico Andrea Graziosi, membro della commissione Galli della Loggia, sul Foglio lo scorso 6 gennaio, con estrema naturalezza ha enfatizzato l’idea di un sapere oggettivo, neutrale e gerarchico, ignorando le critiche postmoderne che hanno evidenziato il carattere sociale e contestuale della conoscenza. Il suo discorso sul declino dell’Europa e sulla necessità di difendere la “supremazia intellettuale” richiama le teorie dello sviluppo lineare della civiltà. Per cui l’università di massa avrebbe abbassato la qualità accademica e il valore della formazione, rendendo l’ateneo un meccanismo di selezione più che di coesione sociale. L’idea che il calo demografico debba essere affrontato riducendo l’accesso all’università e favorendo solo i più meritevoli appare miope, espressione di una prospettiva nostalgica ed elitaria che non considera le dinamiche storiche e sociali attuali. Si ripropone così la narrazione secondo cui l’espansione universitaria post-’68 avrebbe inevitabilmente compromesso la qualità accademica, una critica consolidata che vede nella democratizzazione dell’istruzione una minaccia più che un’opportunità. L’idea di “aiutare i forti per poter continuare ad aiutare i deboli” ripropone la retorica neoliberista della meritocrazia come soluzione ai problemi universitari, ignorando il peso dei fattori economici e sociali nei meccanismi di selezione accademica. La concentrazione delle risorse sui “migliori” rischia di aumentare le disuguaglianze tra atenei e studenti, penalizzando chi proviene da contesti svantaggiati. È chiaro come venga ignorato che il problema non è il numero di studenti, ma l’assenza di investimenti strutturali e di una riforma organica capace di coniugare qualità e accessibilità.
Non è difficile, quindi, affermare nelle intenzioni di chi vuole riformare l’Università italiana, attraverso retoriche elitiste, le componenti del conservatorismo sociale tocchino e si consolidino a fianco a logiche aziendaliste e mercatiste. La cosa che deve far riflettere e che questa “egemonia” sia portata avanti, come fa notare Montanari, non nel campo delle idee, ma a colpi di decreti governativi.
L’università rappresenta da sempre uno dei pilastri fondamentali delle società democratiche e pluraliste, un luogo in cui il pensiero critico dovrebbe essere al centro della formazione. In una società sempre più polarizzata e divisa, dove le informazioni vengono frammentate e spesso manipolate, la capacità di pensare in modo indipendente e di analizzare le realtà complesse diventa essenziale. Le sfide globali, come il cambiamento climatico, le disuguaglianze sociali, le crisi geopolitiche, richiedono individui in grado di affrontare la realtà con una mente aperta, pronta a mettere in discussione le convenzioni e a cercare soluzioni attraverso il dialogo e il confronto. L’università deve fornire agli studenti gli strumenti per sviluppare queste competenze critiche, lontano da una formazione che mira solo a produrre tecnici o professionisti utili a un mercato del lavoro che cambia rapidamente.
Questo tipo di formazione critica è possibile solo se l’università mantiene la sua autonomia e indipendenza, lontana dalla logica aziendalista che tende a ridurre l’istruzione superiore a una mera fabbrica di competenze. Quando l’università si trasforma in un’impresa, quando i finanziamenti pubblici vengono ridotti o vincolati da criteri che privilegiano l’efficienza economica piuttosto che il valore sociale e culturale dell’educazione, si rischia di svuotarla del suo significato più profondo. L’università non può diventare una mera provider di servizi formativi al servizio di un mercato del lavoro sempre più competitivo e orientato al profitto. Al contrario, essa deve essere un luogo di ricerca autentica, di sperimentazione del pensiero e di libera discussione, dove le domande più difficili e complesse possano essere poste senza la paura di essere immediatamente tradotte in risposte utilitaristiche. Bisogna ribadirlo con forza: l’università deve essere aperta a tutti, non solo a chi può permettersela economicamente. In questo senso, la diversità e l’inclusione non sono concetti astratti o teorici, ma elementi essenziali per garantire l’accesso a un’educazione di qualità a ogni individuo, indipendentemente dal suo background socio-economico. L’università deve essere un ascensore sociale, uno strumento capace di abbattere le barriere economiche, sociali e culturali che ancora oggi limitano l’accesso a un’istruzione superiore di qualità. Promuovere l’inclusione e la diversità non significa soltanto accogliere persone da contesti diversi, ma anche riconoscere che ogni individuo porta con sé una prospettiva unica, che arricchisce e amplia la comprensione collettiva delle sfide globali. L’inclusione deve quindi diventare una pratica quotidiana, non solo un obiettivo teorico. È necessario che le università adottino politiche di accesso che garantiscano opportunità a tutti, anche a chi proviene da famiglie meno abbienti o da contesti svantaggiati. Qui entra in gioco un altro aspetto cruciale: il ruolo del finanziamento pubblico. Le università devono poter contare su risorse adeguate, garantite dallo Stato, che non siano subordinate agli interessi privati e alle dinamiche di mercato. Il finanziamento pubblico all’istruzione è una scelta politica che riconosce il valore dell’università come bene comune, fondamentale per lo sviluppo culturale, scientifico e civile di una nazione. Una società che non investe nella propria educazione è destinata a ridurre le proprie opportunità di crescita, sviluppo e innovazione.
Infine, l’università deve restare fedele alla sua funzione sociale e civile, come luogo di formazione del pensiero, di educazione alla cittadinanza e di riflessione critica sui grandi temi che riguardano l’umanità. Non può essere un luogo dove si impara solo a “consumare” conoscenza, ma un luogo dove si formano soggetti capaci di “produrre” conoscenza, di interpretare il mondo e di partecipare attivamente alla costruzione di una società più giusta e sostenibile. In questo senso, l’università è il cuore pulsante della nostra cultura e della nostra democrazia, un baluardo contro la tentazione di ridurre ogni aspetto della vita sociale e culturale alla logica del mercato.
La difesa dell’università come luogo di pensiero critico, di inclusione e di formazione per tutti non è solo una questione di giustizia sociale, ma anche di difesa della democrazia e della libertà. Perché, se l’università perde la sua capacità di formare pensatori liberi e critici, perde anche il suo ruolo fondamentale nella costruzione di una società giusta, pluralista e aperta a tutti. Dobbiamo unire le forze per difendere un’università che appartenga a tutti, che sia davvero un luogo di opportunità e di crescita, non una semplice appendice del mercato. Solo così potremo garantire un futuro migliore per le prossime generazioni e per la nostra società nel suo complesso.