Tensioni tra Trump e la Fed: una sfida all’equilibrio istituzionale
Lo scontro tra Trump e la Fed guidata da Powell era ampiamente prevedibile, soprattutto dopo l’avvio delle politiche protezionistiche basate sull’imposizione di nuovi dazi. E non si è fatto attendere: l’attrito tra Casa Bianca e Banca centrale americana è rapidamente salito di tono. Già all’inizio della sua presidenza, Trump aveva mostrato insofferenza verso Powell, considerato... Leggi tutto

Lo scontro tra Trump e la Fed guidata da Powell era ampiamente prevedibile, soprattutto dopo l’avvio delle politiche protezionistiche basate sull’imposizione di nuovi dazi. E non si è fatto attendere: l’attrito tra Casa Bianca e Banca centrale americana è rapidamente salito di tono.
Già all’inizio della sua presidenza, Trump aveva mostrato insofferenza verso Powell, considerato troppo distante dalle sue posizioni economiche, soprattutto per quanto riguarda la gestione della politica monetaria e l’interpretazione dello stato di salute dell’economia statunitense. Tuttavia, il mandato di Powell, che scade nel 2026, è protetto dalla legge: il presidente non può rimuoverlo a suo piacimento, anche se sembra non rinunciare all’idea di esercitare pressioni dirette.
Temendo un rallentamento economico indotto dall’aumento dei prezzi sui beni importati – conseguenza diretta dei dazi – Trump vorrebbe che la Fed allentasse la politica monetaria, abbassando i tassi d’interesse. Un simile intervento, però, rischierebbe di alimentare l’inflazione, già in leggera crescita prima ancora dell’introduzione delle nuove misure tariffarie. Si profila così uno scenario complesso, in cui la spinta espansiva di Trump potrebbe innescare un mix esplosivo di inflazione elevata e stagnazione economica: la temuta stagflazione. In questo contesto, le soluzioni di politica economica diventano difficili da conciliare.
Ciononostante, Trump ha scelto la via della pressione diretta: un messaggio conciso e aggressivo, scritto in lettere maiuscole, ha intimato a Powell di tagliare i tassi e di “non fare politica”. L’attacco all’indipendenza della Fed è stato netto e pubblico, andando a colpire uno degli ultimi contrappesi al potere dell’esecutivo, che oggi controlla anche il Congresso e la Corte Suprema grazie alla maggioranza repubblicana.
Powell ha finora mantenuto una posizione salda, ma le nubi all’orizzonte si addensano. Negli ultimi giorni si è diffusa la voce di un’eventuale uscita del Segretario al Tesoro, Scott Bessent. Le motivazioni sono incerte: c’è chi sostiene che le sue dimissioni deriverebbero dal disaccordo con la linea protezionistica dell’amministrazione, mentre altri ipotizzano un disegno più strategico, ossia prepararlo alla successione di Powell alla guida della Fed. Tuttavia, lo stesso Bessent ha smentito indirettamente queste indiscrezioni.
In questo scenario, l’indipendenza della Fed assume un valore cruciale. Un suo indebolimento rappresenterebbe una minaccia non solo per la stabilità economica degli Stati Uniti, ma anche per la credibilità delle istituzioni democratiche e per la fiducia dei mercati internazionali. Una Fed assoggettata alla volontà politica del momento manderebbe un segnale allarmante al resto del mondo, dove già si osservano derive autoritarie in paesi come la Turchia o in alcune nazioni sudamericane.
In definitiva, la questione della Fed non è soltanto un problema interno. È il simbolo di un equilibrio fragile tra poteri, che oggi rischia di rompersi sotto il peso delle scelte economiche discutibili di un’amministrazione sempre più concentrata su logiche di potere e consenso, piuttosto che su una visione di lungo periodo per la stabilità del sistema.