Su stress e sofferenza influiscono rapporti economici e di potere: dovremmo rallentare
di Sara Gandini e Paolo Bartolini Nell’era dell’Intelligenza Artificiale gli algoritmi e la comunicazione digitale vengono presentati come la soluzione a ogni problema negli ambiti più diversi, dalla medicina alla scuola, dal lavoro alla crisi climatica. Se manca personale o se le persone non sono abbastanza preparate: non c’è problema, abbiamo l’AI! Eppure le coordinate […] L'articolo Su stress e sofferenza influiscono rapporti economici e di potere: dovremmo rallentare proviene da Il Fatto Quotidiano.

di Sara Gandini e Paolo Bartolini
Nell’era dell’Intelligenza Artificiale gli algoritmi e la comunicazione digitale vengono presentati come la soluzione a ogni problema negli ambiti più diversi, dalla medicina alla scuola, dal lavoro alla crisi climatica. Se manca personale o se le persone non sono abbastanza preparate: non c’è problema, abbiamo l’AI! Eppure le coordinate di questa fase di transizione del tecnocapitalismo sono facili da mettere a fuoco: ansia da performance, fretta, precarietà, paura e aggressività, individualismo sfrenato e sofferto. Invece di liberare tempo di vita vediamo che, con l’avvento di una tecnologia sempre più invasiva, i bioritmi saltano, la separazione tra lavoro e tempo libero viene cancellata (molto del nostro lavoro è gratuito e si svolge a vantaggio del cosiddetto capitalismo delle piattaforme) e la complessità del vivente si riduce a puro funzionamento.
Tutto questo, a ben vedere, converge nella sua generale insostenibilità verso una costante: lo stress come iperattivazione permanente, allarme, tensione incline a cronicizzarsi fino all’esaurimento. Non dovrebbe stupire allora come proprio lo stress risulti essere un fattore scatenante e concomitante per molte malattie a carico non solo del nostro sistema immunitario. Anche con i nostri studi abbiamo mostrato che esiste un nesso potente tra stress e tumori.
Questo dovrebbe spingerci oltre la banale constatazione, sempre pronta a tradursi in raccomandazioni sugli stili di vita, sull’importanza dell’alimentazione, dello sport e così via. Sono queste, senza dubbio, questioni molto rilevanti e meritevoli di educazione/formazione durante l’intero ciclo di vita della persona. Ma, eccoci al punto, le persone non sono atomi dislocati e isolati. Non esistono propriamente “individui” separati e distinti dal loro ambiente, con cui co-evolvono in accoppiamento strutturale. Si pensi che in biologia alcuni studiosi parlano di condividuo, per rimarcare il fatto che già il singolo organismo è in realtà una comunità plurale, caratterizzata ad esempio da una molteplicità di ospiti attivi nel microbioma intestinale, peraltro altamente influenzato dallo stress, e sempre bisognosa di interazioni con altri soggetti appartenenti alla medesima nicchia ecoculturale. Non a caso vivere da soli è collegato con una prognosi peggiore di tumori molto aggressivi come quello del melanoma.
Se ci soffermiamo quindi sul versante collettivo e interpersonale, scopriamo che l’impatto delle dinamiche storiche, economiche ed ecologiche può alterare l’espressione genica e ovviamente perturbare i nostri sistemi fisiologici e la psiche. La genomica sociale, la psiconeuroendocrinoimmunologia (Pnei), l’epigenetica e altre branche delle attuali scienze della complessità, in dialogo con la statistica e la sociologia, suggeriscono che le diseguaglianze e le ingiustizie strutturali presenti in una certa configurazione socioeconomica si riflettono drasticamente sul malessere psicofisico e spirituale degli esseri umani. Le persone che appartengono a fasce economiche più basse hanno meno accesso a cure oncologiche fondamentali e bassi livelli scolastici sono associati ad una significativamente peggiore mortalità anche nei paesi del nord Europa.
Qui tornerebbe utile attingere alla saggezza dei sistemi di cura tradizionali (soprattutto extra-occidentali), secondo i quali il disagio del singolo è sempre, in qualche modo, lo specchio di uno squilibrio dell’intero gruppo umano di appartenenza.
Le soluzioni che mirano a medicalizzare e normalizzare la sofferenza diffusa nella nostra epoca, insieme allo stress costante che la caratterizza, rischiano di aggravare il problema anziché risolverlo. Questo accade perché trattano la sofferenza come una questione individuale, isolando le persone dal loro contesto sociale e relazionale. Intervenire solo sulla dimensione personale, senza affrontare le cause più profonde legate ai rapporti economici e di potere, significa ignorare la radice del problema. Invece di cercare rimedi temporanei per lo stress quotidiano — che si tratti di soluzioni new age o di farmaci — dovremmo rallentare e ridefinire le nostre priorità. La guerra, la competizione sfrenata, l’ossessione per la fama e la ricchezza sono fattori che, spesso in modo sottile, incidono negativamente sulla salute pubblica.
Una risposta a questa deriva non la troveremo in qualche scaffale del mercato dei servizi alla persona e del “benessere individuale”. L’unica cura per lo stress pervasivo che intacca le nostre difese e corrode la mente e il cuore potremo trovarla in un impegno incessante ad accogliere la delicata vulnerabilità della nostra specie e degli ecosistemi che ci accolgono e che modifichiamo, nonché a coltivare il ritmo di una vita buona che sia anche giusta. Tutto questo non si riduce a qualche farmaco o dieta di ultima generazione, ma esige una riconversione dello sguardo e dell’esistenza: restare umani in mezzo alla tempesta, promuovere solidarietà, riscoprire un tempo liberato dal lavoro salariato e dalle dipendenze digitali. Domandarci, una volta ancora e sempre di nuovo, che mondo siamo pronti a costruire insieme e come lottare per rigenerare un’idea di salute post-consumistica.
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