Queste, secondo noi, le migliori serie di marzo 2025
Dalla satira feroce e divertente sulle contraddizioni di Hollywood di “The Studio” al fenomeno globale di “Adolescence”, che ha permesso a molti genitori di esporre le proprie paure sul mondo digitale, passando per nuovi crime come “Dope Thief”, “The Residence” e “Happy Face”, queste secondo noi le migliori serie di marzo. L'articolo Queste, secondo noi, le migliori serie di marzo 2025 proviene da THE VISION.

Nelle ultime settimane molti dibattiti sono tornati a concentrarsi su una serie come non succedeva da tempo: “Adolescence”. I rischi e le paure della radicalizzazione online e le conseguenze della maschiosfera hanno infatti fatto uscire allo scoperto molti genitori, che evidentemente temevano le proprie preoccupazioni fossero solitarie, invece che condivise collettivamente. Insieme a un fenomeno di tale portata, ci sono state anche altre serie che, seppur in modi e intensità diversi, si sono distinte questo mese. Ecco quali.
Adolescence (Netflix)
Jamie è un tredicenne della working class britannica colpevole di aver ucciso una sua coetanea senza un apparente motivo. La vittima lo aveva bullizzato su Instagram, umiliandolo più volte nei commenti. Di base non si tratterebbe di un movente solido, ma il fatto che si tratti di un tredicenne con un’idea confusa del rapporto tra i sessi, infarcito di cultura incel, ci dicono che può essere una pista.
Adolescence non è un thriller né un legal drama, il fulcro della trama è una disperata ricerca delle cause del delitto dentro e fuori l’assassino, ed è una visuale spaventosa perché non ha un approdo solido. Senza dare delle risposte dogmatiche o inevitabilmente posticce, la serie, in cima alle classifiche globali di Netflix, affronta temi complessi che riguardano i più giovani e non solo: misoginia, genitorialità, radicalizzazione, bullismo, salute mentale.
Le quattro puntate, girate interamente in piano sequenza, hanno il pregio di fotografare l’agghiacciante vicenda da diverse angolature – i genitori, la scuola, gli amici, la condizione socio-psicologica del ragazzo –, con estrema sensibilità e senza giudizio. La terza puntata, che racconta il colloquio tra Jamie e una psicologa chiusi in una stanza, è quella in cui più di tutte emerge l’approccio narrativo profondo e aperto, che porta alla sospensione del giudizio.
Nel complesso, la serie dipinge un quadro crudo e impietoso della società in cui viviamo, sottolineando un senso di incredulità e impotenza che si estende dalle famiglie alle istituzioni. II suo successo sembrerebbe essere dovuto al fatto che tocca temi molto seri su cui l’opinione pubblica non si è ancora fatta un’idea abbastanza chiara, ma ha un vitale bisogno di farsela.
Dope Thief (Apple TV)
Prodotta da Ridley Scott, che ne ha girato anche il pilot, Dope Thief è un crime drama scritto da Peter Craig – già autore di The Town, Hunger Games e The Batman – che vi terrà incollati allo schermo. La serie prende vita dall’omonimo romanzo di Dennis Tafoya e promette un mix perfetto di azione, suspense e personaggi sfaccettati. La storia si sviluppa seguendo Ray (Brian Tyree Henry) e Manny (Wagner Moura), due truffatori di Philadelphia con un metodo tanto ingegnoso quanto rischioso: si fingono agenti della DEA per rapinare piccoli spacciatori e rivendere la droga. Il loro sistema sembra funzionare alla grande, finché non colpiscono per sbaglio una grossa organizzazione criminale. In un attimo, da predatori diventano prede, braccati sia dalla malavita che dalle vere forze dell’ordine.
Ciò che rende Dope Thief una serie riuscita non è solo il ritmo serrato della sua narrazione, ma anche la caratterizzazione dei personaggi: Ray e Manny non sono i classici criminali senza scrupoli, ma due uomini intrappolati in un gioco molto più grande di loro, convinti di poter controllare una situazione che, in realtà, si rivela una bomba a orologeria. Il cast di supporto, con nomi del calibro di Marin Ireland, Kate Mulgrew e Ving Rhames, aggiunge poi ulteriore profondità a questa storia, in cui nessuno è davvero innocente. Dope Thief inizia quindi come un classico racconto crime per trasformarsi in qualcosa di molto più intenso: una riflessione sul potere, l’inganno e sulle conseguenze inevitabili delle proprie scelte – temi classici della narrazione statunitense.
The Studio (Apple TV)
La diatriba tra realizzare un prodotto artistico e uno che vende è storica, e sempre molto accesa. Al cinema, in particolare, le pressioni dei produttori hanno spesso tarpato le ali alle intenzioni più creative di registi e registe, perché prima di essere interessante un film – ma anche un libro, un gioco, un personaggio – deve vendere. Il diktat dei soldi è forse uno dei miti principali che colleghiamo immediatamente a Hollywood, e non è un caso che The Studio, la nuova serie firmata Apple TV, parta proprio da lì per costruire una satira feroce, audace e divertente sulle contraddizioni dell’industria cinematografica.
Tra le piattaforme in grado di creare alcuni dei prodotti seriali più interessanti degli ultimi tempi – pensiamo a Severance, Bad Sisters, Ted Lasso o Pachinko, per citarne alcuni –, Apple TV conferma i propri standard qualitativi anche con The Studio. La trama segue Matt Remick (interpretato da Seth Rogen), un appassionato cinefilo nominato come nuovo capo dei Continental Studios, una storica casa di produzione in difficoltà. Determinato a realizzare film di qualità in un’epoca dominata da franchise e blockbuster, Matt si scontra con le pressioni del nuovo proprietario, Griffin Mill (Bryan Cranston), che privilegia il profitto rispetto al valore artistico. Un elemento distintivo della seria è la presenza di numerose guest star di alto profilo, tra cui Martin Scorsese, Zoë Kravitz e Ron Howard, che interpretando versioni esagerate di sé stessi aggiungono autenticità e umorismo alla narrazione. The Studio diventa così una satira brillante e ben realizzata, capace di offrire uno sguardo critico e divertente sulle sfide di Hollywood, soprattutto in un momento in cui è sempre più al centro dell’attenzione anche per il suo apparente spostamento a destra. D’altronde, per i soldi questo e altro.
Happy Face (Paramount+)
Keith Hunter Jesperson potrebbe essere un nome completamente sconosciuto ai più, ma è un serial killer canadese che negli Stati Uniti ha ucciso almeno otto donne durante i primi anni Novanta. Molte delle sue vittime erano sex worker e persone senzatetto con cui non aveva alcun legame, e che uccideva strangolando proprio come faceva da bambino con alcuni animali. Fu soprannominato “Happy Face” perché disegnava faccine sorridenti sulle numerose lettere che inviava ai media e alle forze dell’ordine. Shattered Silence, l’autobiografia del 2009 di Melissa Moore, ne racconta un lato inedito, perché l’autrice è sua figlia. Cosa significa avere come genitore un serial killer condannato all’ergastolo?
È attorno al tentativo di rispondere a questa domanda che si sviluppa Happy Face, la nuova serie disponibile su Paramount+ ispirata proprio alla storia vera di Moore. La trama segue un momento successivo agli omicidi e al processo, quando viene Melissa sconvolta dal tentativo del padre di mettersi in contatto con lei, una volta che era finalmente riuscita a costruire una vita apparentemente normale con il marito Ben e i loro figli. Confrontarsi con il proprio passato, con ciò che si sente di non essere riusciti a fare abbastanza e iniziare un’indagine personale su se stessi e i propri genitori non è mai facile, soprattutto in casi come questo. Mescolando realtà e finzione, Happy Face cerca di distinguersi focalizzandosi sulle conseguenze emotive che i crimini hanno sulle famiglie dei colpevoli e delle vittime, evitando di indulgere troppo nella rappresentazione della violenza, ma anzi preferendo analizzare al meglio l’inevitabile trauma psicologico.
The Residence (Netflix)
Ci sono alcuni generi culturali che al di là del mezzo con cui vengono espressi – libri, film, serie –, costituiscono per molte persone una sorta di comfort zone, uno spazio franco in cui potersi scollare il mondo di dosso o soluzioni pratiche per quei momenti in cui nient’altro sembra catturare la nostra attenzione abbastanza. Tra questi, uno dei più comuni è sicuramente il “whodunit”, dalla contrazione dell’inglese “Who has done it?”, cioè “Chi l’ha fatto?”: si tratta del classico genere giallo, reso famoso per esempio da Agatha Christie, in cui la scena viene stravolta da un omicidio, di cui va individuato il colpevole. Negli anni recenti abbiamo visto ottime sue esecuzioni anche sulle piattaforme streaming, e The Residence, la nuova serie Netflix con protagonista Uzo Aduba, una delle attrici più conosciute di Orange is the New Black, rientra perfettamente tra questi.
A guidare le indagini è Cordelia Cupp, una detective eccentrica interpretata chiamata a risolvere un omicidio avvenuto durante una cena di Stato alla Casa Bianca. L’indagine porta alla luce conflitti tra ben 157 membri dello staff e ospiti presenti quella sera. Un gioco da ragazzi, insomma. Mescolando umorismo e mistero, Aduba riesce a combinare nel suo personaggio comicità e profondità, offrendo una narrazione coinvolgente, mai scontata, che anche nella risoluzione del mistero mantiene una sua coerenza, senza uscirsene con un finale strampalato, e che utilizza flashback e montaggi rapidi per esplorare le diverse prospettive dei sospettati, mantenendo un ritmo incalzante. Una serie che, come hanno scritto diverse testate, riesce a emanare gioia, in un momento in cui ce ne è molto bisogno.
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